MEME, la rivoluzione sarà ripostata.

abstract dal catalogo: MEME, 2018, Galleria Il Castello.
Tra i meme più diffusi del 2017 c’è un’immagine estratta dalla serie #HoodDocumentary che vede come protagonista l’attore inglese Kayode Ewumi che, con un sorriso alla Eddie Murphy, invita a usare la testa. Per quanto questo fatto possa lasciarci indifferenti, stupiti o perplessi, quell’immagine contribuisce a creare il nostro DNA culturale globalizzato, e quindi ci riguarda tutti. Perché, nonostante i muri sempre più alti, i dazi sempre più cari e le leggi sempre meno inclusive, esiste ancora Internet, una terra comune che ospita miliardi di persone, dove ognuno ha lo stesso diritto di esprimere la propria opinione. E come il nostro DNA è fatto di geni, il DNA culturale di Internet è fatto di meme, mode, frasi, video e immagini che si auto-propagano tra le persone attraverso citazione e imitazione, spesso sfuggendo il controllo di chi li ha creati. Come nel caso di Pepe The Frog, ranocchia grottesca creata da Matt Furie nel 2005, che negli anni è diventata, a dispetto del suo autore, strumento di propaganda della alt-right americana e di Donald Trump.
       Perché il meme non è mai un punto d’arrivo ma è sempre un punto di inizio. Il termine stesso “meme” riprende la parola greca μίμημα, ovvero quella famigerata imitazione di imitazione che Platone, più di due 2000 anni fa, condannava perché di tre gradi lontana dal vero. Eppure è proprio dall’imitazione che tutto ha inizio. Fin da bambini apprendiamo per imitazione. Imitiamo, impariamo e poi innoviamo. E così funziona anche nel mondo dell’arte. Si comincia imitando grandi artisti e si finisce per trovare il proprio stile. Pensiamo per esempio al mondo della musica, Paul Simon e Art Garfunkel cominciarono la loro carriera imitando i grandi cantanti pop degli anni Cinquanta, ma poi trovarono il loro stile e diventarono Simon&Garfunkel. John Ray Cash iniziò imitando i grandi della musica country e gospel degli anni Quaranta, ma poi trovò il suo stile e divenne Johnny Cash. Ray Charles Robinson iniziò imitando i grandi della musica blues degli anni Trenta, ma poi trovò il suo stile e divenne Ray Charles. George Jacob Gershwin iniziò imitando i grandi della musica classica anni Venti, ma poi trovò il suo stile e divenne George Gershwin.
      

Il meme ha una forte carica artistica. È un movimento globale di persone che riprendono icone e oggetti del passato e del presente, li tolgono dal loro contesto originario e gli danno un nuovo significato.

In quest’ottica il meme ha una forte carica artistica. È un movimento globale di persone che riprendono icone e oggetti del passato e del presente, li tolgono dal loro contesto originario e gli danno un nuovo significato. Un po’ come facevano i situazionisti con i loro détournement, Jeff Koons con le sue aspirapolvere, Marcel Duchamp con i suoi orinatoi e Robert Rauschenberg con le sue capre d’Angora. Certo, non si può dire che un singolo meme sia di per sé un’opera d’arte e, di conseguenza, che il suo creatore sia un artista. Spesso i meme sono superficiali, immediati e poco ricercati, ma nel suo insieme, come fenomeno globale, hanno un impatto e una caratura artistica che lascerà il suo segno nella storia della cultura d’inizio secolo. Nei meme c’è il citazionismo figlio del postmoderno, l’utilizzo di immagini prese dalla cultura di massa d’ispirazione Pop, l’ironia del surrealismo, la ripetizione dei soggetti tipica del movimento Street Art e i molteplici livelli di lettura dell’arte concettuale. Il tutto elevato alla potenza di Internet e dei suoi miliardi di utilizzatori che, come in una grande Blockchain socio-culturale, contribuiscono a diffondere, modificare e interpretare immagini e concetti dandogli significati sempre nuovi.
       Ed è proprio in questa dimensione collettiva che ritrovo l’essenza più significativa e interessante dei meme. Perché, proprio come la Blockchain sta rivoluzionando ogni settore dell’economia, infrangendo gli schemi gerarchici e mono direzionali delle istituzioni novecentesche (dal settore bancario con le criptovalute a quello degli investimenti con le ICO), la logica dei meme, e più in generale di Internet, sta cambiando il processo di fruizione dell’immagine. Quello che valida il contenuto di un meme, non è l’autore o l’immagine in sé e non è neanche il sistema classico dell’arte fatto di curatori, critici e istituzioni. Il contenuto è validato dalla viralità del contenuto stesso. E quindi è il contesto collettivo che rende il meme un meme, non il meme in sé. Il principio è semplice, se un meme viene diffuso è un meme, se non viene diffuso non è un meme. E questo vale tanto per l’arte quanto per la società perché, riprendendo le parole di Seong-Young Her, fondatore del sito Philosopher’s Meme, oggi una rivoluzione non basta pensarla o farla, oggi una rivoluzione, per avere un effetto sulla collettività, deve essere ripostata.
      

Oggi una rivoluzione non basta pensarla o farla, oggi una rivoluzione, per avere un effetto sulla collettività, deve essere ripostata

E qui arriviamo al perché di questa mostra. A differenza di quello che potrebbe far pensare il titolo, questa non è una mostra sui meme. Non abbiamo raccolto i meme più significativi degli ultimi anni. Ma abbiamo cercato di indagare più a fondo il rapporto tra arte e società nell’epoca dei meme. Cosa resterà di questo universo di immagini e pensieri? Aveva ragione Platone a condannare l’imitazione di imitazione, oppure l’imitazione è più vicina al vero di quanto lo sia la realtà stessa? Qual è il significato di un’opera? Quello che gli ha voluto dare il suo autore oppure quello che gli attribuisce il pubblico? Abbiamo provato a dare spunti di riflessione, più che risposte, attraverso le opere di artisti che nel loro DNA hanno molti degli elementi che caratterizzano l’immaginario contemporaneo. Da Pao a Massimo Caccia, da TvBoy a Dario Arcidiacono, da Max Ferrigno a Paolo De Cuarto, passando per il lavoro di precursori della nostra epoca come Mimmo Rotella, Maurizio Cattelan e Jacques Villeglé. Abbiamo scelto opere originali che nella loro estetica contenessero elementi di richiamo, diretto o indiretto, all’immaginario dei meme. Basta guardare il formato, spesso quadrato, o l’immagine essenziale dai tratti pop, che talvolta dialoga con un testo studiato apposta per completare l’opera e per darle un significato ironico e provocatorio. Così come la scelta dei soggetti. Elementi presi dalla cultura Pop e mischiati con colori e ispirazioni differenti. Dalla Marilyn di Pao unita all’estetica pubblicitaria degli anni Sessanta, ai “fratelli Lehman” che incontrano le gemelle Milton nell’opera di Dario Arcidiacono, passando per l’uomo tigre ricontestualizzato da Max Ferrigno, le reclame d’epoca interpretate da Paolo De Cuarto, le “illustrastorie” di Massimo Caccia e le icone classiche dell’arte moderna mischiate a quelle dell’epoca contemporanea da TvBoy.

Post Mao, Post Now, Post Pao.

abstract dal catalogo: Post Pao, 2017, Galleria Il Castello.
Tagliando la storia degli ultimi tre secoli con un’accetta molto grande e poco affilata, potremmo dire che l’Ottocento è stato il secolo del “pre-”, il Novecento quello dell’“ora” e il Duemila quello del “post-”. L’Ottocento ha gettato le basi politiche, sociali, filosofiche, geografiche ed economiche per il Novecento che è stato uno dei secoli più intensi e sconvolgenti della storia dell’uomo e che ci ha lasciato un presente fatto di crisi esistenziali, miti decaduti e valori smarriti.
       Non è dunque un caso che il prefisso “post-” sia diventato uno dei paradigmi chiave dell’epoca contemporanea. Ron Inglehart ha introdotto il concetto di post-materialismo, Jean-François Lyotard e Gilles Deleuze quello di post-strutturalismo, i critici d’arte criticano opere post-pop e post-impressioniste, mentre i critici musicali recensiscono album post-rock e post-punk, l’economista inglese Paul Mason profetizza un imminente post-capitalismo, mentre il sociologo americano Daniel Bell anticipò l’avvento di una società post-industriale. E così via, fino al “post-” più post di tutti: il post-moderno. Peter Drucker (come molti altri prima e dopo di lui) ha teorizzato un mondo post-moderno, Peter Greenaway e Quentin Tarantino hanno realizzato film post-moderni, Jeff Koons arte post-moderna, Charles Jencks architettura post-moderna, Slavoj Žižek ci parla di una società post-moderna e Zygmunt Bauman del disagio di vivere nella post-modernità.
       Di fronte a questa post-immensità, viene da domandarsi quanto a lungo l’uomo possa spingersi a posticipare il passato? Dopo il post-moderno, può esserci un post-post-moderno? Oppure funziona come nella matematica, dove meno per meno dà come risultato più, e quindi post- per post- dà come risultato pre-? Impossibile dirlo. Sicuramente non è facile confrontarsi con due secoli così ricchi d’invenzioni e rivoluzioni come l’Ottocento e il Novecento, quindi ci può stare un passaggio di transizione in cui tutto è post-tutto. Purché sia un passaggio. Purché l’uomo non rimanga bloccato in un eterno e infinitamente nostalgico post-futuro, ancor prima che il futuro si sia realizzato.
      

Scrolliamoci di dosso il polveroso fardello del passato e cominciamo ad essere pre-qualcosa. Smettiamola di vederci come la fine di tutto e cominciamo ad essere l’inizio di tutto.

Le crisi, i cambiamenti e gli scossoni socio-economici che stanno caratterizzando i nostri tempi sono occasioni per voltare pagina, per trasformare pagine bianche in storie che ancora non sono state scritte. E nessuno può cogliere questa sfida più di un artista. Gli artisti per eccellenza sono degli iniziatori assoluti, sono quelli che arrivano prima di tutti, che anticipano mode e trasformazioni, che capiscono la società e creano le avanguardie. Un artista non è mai statico ma sempre dinamico, inquieto e con la testa piena di punti di domanda. Un post-artista è un non-artista. Un artista che non cambia mai, che non sperimenta, che non uccide la routine ogni giorno, che non cambia direzione e che non va mai oltre se stesso, non è un artista.
       Dieci anni fa, nel Marzo 2007, ho avuto il piacere di partecipare alla mostra Street Art Sweet Art al Padiglione d’Arte Contemporanea (PAC) di Milano, in qualità di organizzatore e autore, con altri, del catalogo. La mostra ha visto la partecipazione di quasi trenta artisti italiani che, chi più chi meno, stavano contribuendo a creare la scena della Street Art in Italia. Messi di fronte alla necessità di esporre opere di street art de-streettizate (ovvero senza l’elemento che più di ogni altro caratterizza e dà il nome a questa forma d’arte: la strada), alcuni artisti si sono limitati a replicare quanto facevano in strada ma all’interno del museo, creando così delle opere di post-street art, altri invece hanno colto l’occasione per andare oltre quello che avevano fatto fino a quel momento e creare qualcosa di nuovo. Hanno rischiato. Hanno abbandonato la comodità di una strada già tracciata per sperimentare e mettersi in discussione. Dimostrando così di essere degli artisti capaci di confrontarsi con contesti tra loro differenti, non dei tecnici capaci di esprimersi solo all’interno di un contesto specifico. L’idea è quello che fa di un artista un vero artista, non solo l’esecuzione. Un vero artista infatti, prescinde dal mezzo con cui opera. Picasso era un artista tanto con un pennello quanto con una lampadina.
       All’interno di quella mostra, dieci anni fa, c’era anche Pao. Ai tempi era già un artista conosciuto in tutta Italia per le sue sculture urbane e, in particolare, per i suoi “pinguini”. Avrebbe potuto farsi portare all’interno del PAC uno dei tanti panettoni di cemento che si trovano in giro per la città e dipingerlo. Ma non lo ha fatto. Ha preferito invece fare qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo. Non ha portato in mostra un’opera di street art ma una tela con un elemento tridimensionale al suo interno. E un concetto pensato apposta per quell’occasione. Ha così creato un’opera che fosse l’inizio di qualcosa. Non la fine. Era una pre-opera. Non una post-opera. Era l’inizio di un nuovo stile, di una nuova espressione artistica e di una nuova idea di arte. Quell’opera infatti sta alla base di molti dei lavori che Pao ha fatto negli ultimi dieci anni.
       Ma veniamo infine a questa mostra, “Post-Pao”, di cui questo catalogo fa parte, inizialmente il sottotitolo doveva essere qualcosa come «Post-Verità, Post di Facebook e Posti Smarriti». Penso sia una buona sintesi di tutti i concetti cui Pao ha dato forma nelle sue opere. Troviamo post-verità come la fusione tra Comunismo e Capitalismo della Cina post-Mao in tele come “KPCC” che unisce la faccia stilizzata del Colonnello Harland Sanders, simbolo del Kentucky Fried Chicken, con quella di Marx, simbolo del comunismo sovietico e cinese. Così come troviamo i “post” più diffusi, consumati e prodotti di tutto il mondo, quelli di Facebook, in tele come “Like For Your Right” dove il pugno chiuso del combattente viene sostituito dal pollice all’insù del noto social network. E infine ci sono i posti smarriti. Quelli che non si trovano in Google Maps o sul GPS. Quelli che si raggiungono solo viaggiando su lunghe strade sterrate che nessuno vuole imboccare perché sembrano non portare da nessuna parte, ma che sono l’unica via per scoprire qualcosa di nuovo e tornare a meravigliarci di quello che ci circonda.

 


 

In difesa di un passato sfuocato.

abstract dal catalogo: Miaz Brothers, 2017, Wunderkammern.
Nell’episodio «The Entire History of You» della serie televisiva Black Mirror, gli autori immaginano un futuro dove tutte le persone hanno un micro computer installato dietro l’orecchio che, fin dalla nascita, registra tutto quello che ognuno vede, fa o sente. Questa tecnologia permette di rivedere e condividere, anche con altre persone, qualsiasi ricordo attraverso un processo chiamato «re-do». In questo modo, il passato diventa qualcosa di nitido, oggettivo e sempre presente. Non ci sono più fraintendimenti, bugie, misteri o ricordi confusi. Basta un piccolo clic sul telecomando e la realtà parla per sé.
       Per quanto questo scenario ci possa apparire distopico e irreale, un futuro in cui il passato è così cristallino è davvero così distante da noi? Forse no. Mio figlio Leone, che ha poco più di due anni, ha già una cartella con più di 2.000 fotografie archiviate per data e luogo. Quando avrà 20 anni e vorrà vedere com’era quando aveva un anno, tre mesi e quattro giorni gli basterà aprire la cartella e selezionare la data. Ogni giorno miliardi di persone condividono su piattaforme come Facebook migliaia di fotografie, video e pensieri sulla loro vita quotidiana contribuendo così a creare un futuro in cui il nostro passato sarà sempre più presente, scritto e indelebile.
       Ed è proprio di fronte a un mondo così oggettivo e documentato che sta la bellezza e la genialità delle opere dei Miaz Brothers. Se un tempo un ritratto dettagliato di sé, dipinto su tela da un abile ritrattista, era un lusso che solo i nobili potevano permettersi, oggi l’originalità della pittura non sta tanto nei dettagli quanto nell’astrazione.

L’arte non è uno strumento di oggettività ma di soggettività. Uno strumento per rendere soggettivo il reale. E non oggettivo l’irreale.

Nei ritratti dei Miaz Brothers, il vero ritrattista non è l’artista con la sua tecnica ma lo spettatore con la sua immaginazione. Non si tratta più di guardare ma di percepire e d’interpretare. In un mondo che ha l’ambizione di costruire un passato, un presente e un futuro analitico fondato sul dettaglio e sulla riproduzione tecnologica della realtà, dove ogni frammento possa essere decodificato secondo canoni più vicini a quelli della macchina rispetto a quelli dell’uomo, i Miaz Brothers annientano il dettaglio. Annientano la meccanicità del ritratto. In un mondo dove algoritmi sempre più sofisticati sono in grado di mappare l’intera popolazione mondiale grazie a sistemi di riconoscimento facciale automatizzato, i Miaz Brothers rendono i soggetti dei loro ritratti un enigma, regalando loro un bene sempre più prezioso: l’anonimato.
       Chi è Lady C? Chi sono gli Old Men e le Young Ladies ritratte? Qual è il loro nome, la loro data di nascita o il luogo dove vivono? Che scuole hanno fatto? Che amici in comune hanno con noi? Cosa hanno fatto ieri? Qual è la loro storia? Non possiamo saperlo. Però possiamo immaginarlo. Possiamo costruire noi la loro storia. Perché le opere dei Miaz Brothers non sono ritratti ma specchi. Il ritratto non riguarda più il soggetto ritratto ma l’idea che il soggetto osservante - lo spettatore - proietta nel ritratto. E questo, in sintesi, è il compito primo dell’arte. L’arte non nasce per dare risposte ma per suscitare domande.

 


 

Geometric Explosion

abstract dal catalogo: Geometric Bang, 2016, Indipendente.
GeometricBang sembra un ossimoro. La razionalità della geometria collide con l’irrazionalità dell’esplosione. Un miscuglio di forme e colori, poesia e natura, storie e volti. La sua arte colpisce palazzi giganteschi, sottopassaggi senza luce, muri stretti e lunghi che sembrano autostrade verticali, oggetti urbani, finestre rotte, grate, strade e saracinesche. Ogni superficie prende vita sotto i colori di GeometricBang.
      Mentre scrivo queste parole sono a Tokyo, una delle città più incredibili dove sia mai stato. Ogni angolo, ogni quartiere, ogni strada è una città a parte. Dall’eclettica Shinjuku all’elettrica Akihabara. Dalla caotica Shibuya all’ipnotica luce di Roppongi di notte. Puoi nutrire la tua anima tra le ombre di Meiji Jingu o il tuo corpo nell’aria di Nishiki Market. Tokyo è un’esplosione d’ispirazioni e influenze culturali. E così è GeometricBang. I suoi lavori sono come arazzi sul muro - giganteschi pattern pieni di vita e colori che trasformano la città in una storia dove chiunque può trovare un proprio epilogo.
       La prima volta che abbiamo lavorato insieme era un paio di anni fa, era Novembre e stavo seguendo un progetto per Campari. Chiesi a GeometricBang di dipingere un grosso muro ispirato allo stile dell’artista italiano Ugo Nespolo. Il risultato fu sorprendente. GeometricBang aveva creato un’opera dove due generazioni si guardavano all’interno di un contesto bucolico e fuori dal tempo. Dopo quel progetto ho avuto l’opportunità di lavorare nuovamente con lui e comprendere meglio la sua filosofia artistica. Tutti i suoi lavori sono basati su una continua ricerca sui colori e sui personaggi della vita quotidiana - persone, oggetti, piante - che danno vita a illustrazioni bidimensionali facili da vedere ma profonde da leggere.

Una profonda semplicità è un’altra caratteristica chiave di GeometricBang. Per riprendere Arthur Schopenhauer, GeometricBang usa forme comuni per raccontare cose non comuni.

I suoi lavori sono fatti di forme, colori ed elementi naturali che anche un bambino può comprende subito, ma raccontano storie che richiedono tempo per essere lette e comprese a fondo. Si possono passare ore davanti a un murales di GeometricBang, osservandolo e provando a comprendere tutti i dialoghi tra l’opera e l’ambiente all’interno del quale è stata creata. Ogni lavoro di GeometricBang è infatti un dialogo aperto con il territorio. E questo trasforma ogni opera in qualcosa di vivo, qualcosa che cambia con il cambiare di quello che lo circonda. Quindi il punto non è cosa crea ma perché, dove, quando o come crea. E questo, per me, è l’essenza reale dell’arte. Nel momento in cui ci approcciamo all’arte, l’oggetto è sempre la cosa meno importante, quello che rende un oggetto un oggetto artistico è tutto ciò che gli sta attorno.

La domanda non è Che cosa è arte? ma Dove è arte? o Quando è arte? E l’arte di GeometricBang è soprattutto là dove sono le persone: in strada.

Io sono una di quelle persone che pensa che l’arte dovrebbe stare nelle strade, tra la gente. Penso che ogni artista abbia un dovere: portare l’arte a tutti perché tutti hanno il diritto di viverla ogni giorno. Questo è il motivo per cui penso che la Street Art sia la forma più naturale di arte e questo è il motivo per cui considero GeometricBang un artista puro.

 


 

Urban Solid: Unusual Solids

abstract dal catalogo: Urban Solid, 2016, Indipendente.
Nell’Agosto 2013 una giornalista titola così un articolo sugli Urban Solid: «Manichino in piazza. È Street Art». Ma siamo sicuri che quel manichino - che in realtà non era un manichino ma una scultura - fosse Street Art? La domanda non è delle più facili, e sorprende la sicurezza della giornalista nel definire così l’arte degli Urban Solid. Ma partiamo dal principio, cos’è la Street Art? Può esistere oggi una definizione di Street Art? Secondo me no. È troppo prematuro. La Street Art è un movimento ancora troppo giovane, troppo vivo, per essere rinchiuso in un’etichetta o in una categoria artistica, storica o sociale.

Personalmente da quando ho a che fare con la Street Art l’ho sentita chiamare in molti modi differenti. Urban Painting, Graffitismo, Tag, Writing, Urban Art, Arte Pubblica, Imbrattamento, Urban PopUp, Stencil Art, Post-Graffitismo, Atto Vandalico, Spray-Art, Iper-Realismo, Muralismo e Post-Muralismo.

Eppure nessuna di queste definizioni riesce ad esprimere a pieno l’essenza della Street Art. E allora partiamo dall’unica cosa che mi sento di dire con sicurezza sulla Street Art: la Street Art è un movimento. E questo non è poco. O meglio, non è da tutti. Basta guardare una qualsiasi mappa cognitiva che sintetizza l’evoluzione dell’arte dell’ultimo secolo per comprendere come, a partire dagli anni Ottanta in poi, l’arte è passata da essere un aggregatore di persone - pensiamo a tutti i gruppi di artisti che dai Futuristi ai Neo-Espressionisti hanno caratterizzato il Novecento - ad essere un insieme disomogeneo di singole personalità.
       Tanto nell’arte quanto nella società si è passati dal paradigma noi-le-persone a quello io-l’individuo. Ciò nonostante, in un mondo che sembra andare sempre di più nella direzione di privilegiare l’individuo alla collettività, la personalità del singolo alla pluralità del gruppo, la Street Art è l’unico movimento artistico che unisce e include riportando l’arte al suo senso originale. Un’arte globale che dalla punta più a Sud dell’America Latina fino alla periferia più a Nord della Russia unisce persone, artisti, stili e pensieri attraverso un unico linguaggio e con un unico fine, quello di portare l’arte a tutti perché tutti hanno il diritto di viverla.
       Dunque, se questo è il contesto e questo è il fine dell’arte e della Street Art, allora mi sento di dire che gli Urban Solid appartengono a questo movimento globale. Mi sento di dirlo perché seguo i loro interventi in strada da anni. E mi sento di dirlo perché all’interno di questo movimento hanno dato un contributo originale e insolito. Non si sono limitati a riprodurre quello che già veniva fatto nel resto del mondo ma hanno aggiunto alla loro arte una caratteristica propria. Quella del solido, della scultura, fondendo discipline diverse in un solo stile. E poi c’è un altro motivo. In molti hanno cercato di definire cosa sia arte e cosa non lo sia. Ma in pochi ci sono riusciti. Una delle definizioni più efficaci, a mio parere, è stata quella dell’artista inglese Damien Hirst. Alla domanda «Signor Hirst, cosa è per lei arte?», l’artista che è riuscito a vendere una carcassa di uno squalo bianco dentro una vasca di formaldeide a 12 milioni di dollari, ha risposto: «La grande arte è quella che ti fa fermare quando giri l’angolo e dire, “cazzo, cos’è?”». Personalmente penso che in questa frase sia racchiusa la formula base non solo dell’arte ma, soprattutto, della Street Art.

La Street Art è quella cosa che mentre stai passeggiando per strada, mentre sei in auto o mentre stai facendo una corsa tra le vie della città, ti salta addosso, inaspettatamente, e ti fa dire: «E questo cos’è?»

Cos’è questa scultura? Cos’è questo dipinto? Qual è il suo messaggio? Cosa mi sta comunicando? In una parola, la Street Art è quella cosa che ti spinge a farti domande. E, come diceva un’altra icona dell’arte del Novecento, Picasso, l’arte non serve a dare risposte ma a far nascere domande. L’arte serve a stimolare il pensiero. L’arte può shockare, irritare o anche dar fastidio. Va bene, è il gioco dell’arte, vale tutto purché sia in grado di emozionare, di innescare delle reazioni. Positive o negative. Un’arte che lascia indifferenti le persone non è arte.
       E anche qui mi sento di dire che gli Urban Solid rientrano nella categoria di artisti le cui opere fanno fermare e dire “cazzo, cos’è?”. Lo hanno fatto con l’opera W l’Italia in Piazza Cadorna a Milano. L’hanno fatto con l’opera Made in China. L’hanno fatto con tutte le orecchie e i nasi attaccati in giro per il nostro Paese. O quando hanno lasciato un bancale pieno di lingotti d’oro (finti) davanti alla Borsa di Milano. E l’hanno fatto anche con una delle loro opere più famose. L’Adamo.
       L’Adamo è una sagoma in gesso ad altezza naturale di un ragazzo nudo con gli occhiali da sole e una grossa foglia di fico che gli copre l’intimità. Gli Urban Solid lo hanno incollato ai muri di mezza Italia. A volte colorandolo. Altre volte lasciandolo grezzo. Un’opera semplice, primordiale - tanto nel soggetto (Adamo, il primo uomo), quanto nella forma (la scultura, considerata una declinazione della prima arte) - ma che proprio per la sua primordialità colpisce e stupisce.
       Le reazioni suscitate da quest’opera sono state infatti così forti che nel Giugno 2014 una donna si è scagliata contro l’Adamo installato nei pressi di Corso Buenos Aires a Milano prendendolo a martellate. Questo gesto, indubbiamente eccessivo - come eccessiva deve essere l’arte - completa e arricchisce l’opera. La rende viva nella sua distruzione. Perché ogni opera di Street Art nasce, si sviluppa e muore grazie al dialogo, a volte anche violento, con la comunità e con il territorio in cui è nata. Se manca questo tipo di dialogo allora non si può parlare di Street Art.

 


 

Blek LeRat and the revenge of the fishing boats

abstract dal catalogo: BlekLeRat, 2016, Wunderkammern.
Il 27 Luglio del 1981, l’allora Presidente degli Stati Uniti d’America Ronald Reagan espone davanti a tutta la nazione una nuova politica economica con cui riduce di un terzo le aliquote d’imposta massima. La metafora che utilizza è un piccolo gioiello di propaganda politica: «Quando la marea sale alza tutte le imbarcazioni, sia gli yacht dei miliardari sia le barchette dei pescatori». Con questa frase si aprono gli anni Ottanta. Gli anni dell’euforia finanziaria, della speculazione senza limiti, dell’1% di ricchi che diventano sempre più ricchi e del 99% di poveri che corrono dietro a un sogno americano portato all’eccesso. Una società dopata in cui tutto viene deregolamentato. Economia, capitali, mercati, costumi e istituzioni. «Compra come non ci fosse più un futuro!», sembra essere il pensiero dominante che mette tutti d’accordo. Dal Cile di Augusto Pinochet all’Inghilterra di Margaret Thatcher fino alla Cina di Deng Xiao-Ping.
       In quella stessa estate del 1981, mentre Reagan si fa paladino del neoliberismo made in USA, un giovane artista francese, che verrà poi conosciuto in tutto il mondo come Blek le Rat, inizia a disegnare ratti neri su muri sporchi tra le strade di Parigi. I suoi stencil non hanno i colori sfavillanti e le spalle larghe dei miti americani. Non invitano le persone a consumare prodotti usa e getta e non vendono bellezza patinata da copertina di Vogue. Sono piccole espressioni della vita reale che non ha nulla a che vedere con la propaganda repubblicana. Mentre il mondo saluta gli anni Ottanta con un sorriso edulcorato, Blek le Rat lo fa con la sagoma di un ratto ritagliato su un pezzo di cartoncino e impresso sul muro con una bomboletta spray nera. Niente di più distante dall’immaginario di massa. Niente di più vicino a quello che l’arte dovrebbe essere. Blek le Rat non è un politico, non è un imprenditore e non è neanche un uomo di spettacolo. È un artista. E un artista ha il dovere di andare contro corrente e mettere in discussione lo status quo.

Quando si parla di arte esistono due tipologie di artisti. Ci sono artisti che cavalcano le mode e artisti che le anticipano. Ci sono artisti figli del loro tempo e artisti padri del tempo futuro.

Blek le Rat appartiene a questa seconda categoria. Quello che molti artisti fanno oggi, lui lo faceva già più di trent’anni fa. È facile oggi parlare di cultura underground, di street art o di urban art. Quanti sono gli artisti, più o meno famosi, che usano lo stencil come mezzo espressivo e l’arte in strada come messaggio di protesta e rivolta? Tanti, tantissimi. La street art, in tutte le sue forme, è ormai un movimento globale che va dalla punta più a sud dell’America Latina a quella più a nord della Russia. Ma nell’estate del 1981 non era così. A quei tempi in galleria andavano i ready-made al neon in stile Koons e in strada i bambini radianti alla Keith Haring. Non c’era spazio per topi neri alla Blek le Rat. Oggi invece la moda è cambiata, gli stencil di Banksy dettano l’andamento del mercato dell’arte e nelle gallerie si celebra la street art come movimento d’inizio secolo.
       Quello che non è cambiato è lo stile di Blek le Rat. Uno stile semplice, immediato, dove quello che conta non è la tecnica in sé ma il messaggio, l’idea, il contenuto. Nell’era del digitale, chiunque è capace di stampare una grafica monocolore, ritagliarla e farci uno stencil con cui imbrattare i muri di mezza città. E così in molti si sono sentiti in diritto di farlo.

Ma essere artista non vuol dire saper fare un’opera ma saperla pensare. L’artista prescinde dal mezzo di espressione.

Picasso era un artista tanto con una matita in mano quanto con una lampadina, un blocco d’argilla o una bicicletta. Se il successo di un artista si misurasse sulla sua abilità tecnica, non sarebbe un artista ma, appunto, un tecnico. Il successo di un artista invece si misura attraverso la sua sensibilità, attraverso la capacità di vedere oltre rispetto a quello che vedono tutti gli altri. Spesso Blek le Rat viene ricordato per essere l’inventore dello stencil applicato alla street art. Ma questo è superficiale e riduttivo. Lo stencil è una tecnica. Quello che ha inventato Blek le Rat è un modo nuovo di fare arte. Un modo che oggi trova la sua massima espressione artistica e commerciale. L’innovazione di Blek le Rat sta nel suo pensiero, nell’aver creato un’arte immediata, sporca, irriverente che arriva a tutti perché tutti hanno il diritto di viverla.
       E poi c’è un ultimo punto che caratterizza Blek le Rat. A partire dal suo primo stencil nel 1981 fino alle sue ultime opere: la spinta propagandistica della sua arte. Personalmente mi ritengo fortunato perché nella mia vita professionale ho avuto a che fare prima con l’arte e poi con il marketing. E quando la si vede da questa prospettiva, non si può che rendersi conto che il marketing non è altro che la versione low cost dell’arte. Per secoli la comunicazione è stata un privilegio di quei pochi papi, imperatori e sovrani che potevano permettersi di pagare un artista per raccontare al mondo la propria storia e i propri valori. Cesare si servì del De bello Gallico, Ottaviano Augusto dell’Eneide, papa Giulio II di Michelangelo, Napoleone di Jacques-Louis David e così via fino alla propaganda moderna di Edward Bernays e quella mediatica di Ronald Reagan che negli anni Ottanta utilizzava film come Rocky per vincere la Guerra Fredda e diffondere il mito di un’America forte e invincibile.
       La propaganda passa per l’arte e la cultura. E l’arte non può prescindere dalla propaganda. Ogni espressione artistica dell’uomo, dal Paleolitico ad oggi, è prima di tutto una forma di comunicazione che segue il principio base della propaganda: non limitarsi ad informare ma persuadere, coinvolgere ed emozionare. Fenomeni psicosomatici come la sindrome di Stendhal sono espressione del potere travolgente dell’arte. La sua capacità di irretire lo spettatore. Non ho mai sentito di una persona che di fronte a una pubblicità di un detersivo o di un televisore abbia avuto tachicardia, capogiri, vertigini o allucinazioni. Davanti ad un’opera d’arte invece sì.
       Il Novecento ci ha mostrato il potere politico, commerciale e psicologico della propaganda. Un potere enorme che nelle mani sbagliate può generare mostri. Un potere di cui ogni artista dovrebbe sentire la piena responsabilità. Concludo dunque parafrasando una poesia che Vladimir Majakovskij scrisse nel 1917 dopo I dieci giorni che sconvolsero il mondo e che portarono alla vittoria della Rivoluzione d’ottobre da parte dei bolscevichi: Non rinchiuderti arte nelle tue stanze ma resta amica dei ragazzi di strada.

 


 

Black Hole Fun

abstract dal catalogo: Pao: Black Hole Fun, 2015, Indipendente.
In WarGames, film culto del 1983 diretto da John Badham, David J. Lightman è un adolescente americano, figlio dell’America post shock petrolifero, che alla scuola preferisce i video games e che cerca di far colpo sulle ragazze grazie alle sue abilità da proto-hacker. Un giorno, mentre cerca di introdursi nel computer della casa di videogiochi Protovision, si connette a un supercomputer, chiamato WOPR (War Operation Plan Response), progettato per valutare azioni e contromosse in caso di un eventuale attacco missilistico russo all’America. Pensando si tratti soltanto di un gioco, David, inizia una partita a Guerra Termonucleare Globale contro WOPR il quale, non essendo in grado di distinguere la realtà “virtuale” da quella “reale”, risponde alle mosse di David segnalando un attacco nucleare imminente e preparandosi per una terza guerra mondiale. A pochi istanti dal lancio dei missili tuttavia, David riesce a salvare la situazione, ordinando al sistema di giocare a Tris contro se stesso e, come la gran parte dei film di fantascienza anni Ottanta, anche WarGames si chiude con un lieto fine lasciando spazio a una morale ben riassunta dal suo claim: L'unico modo per vincere una guerra nucleare è... non farla!
       A trent’anni di distanza però, il film nasconde una grande verità che oggi ci riguarda tutti e che sta alla base del tema di questa mostra. La distanza tra quello che facciamo e le conseguenze delle nostre azioni è sempre più ampia. Come dei moderni David J. Lightman, ogni giorno ci sediamo davanti al computer senza renderci conto di cosa sta dietro al nostro divertimento. Di quale sia l’impatto delle nostre abitudini sul mondo. Pensiamo alla produzione in serie del cibo che ha ormai assunto dinamiche da prodotto di massa. Si è passati da una logica in cui l’uomo era produttore diretto del cibo che consumava e quindi aveva piena consapevolezza della sua origine, fino a un estremo in cui l’uomo è divenuto consumatore inconsapevole di dove e come il cibo che consuma viene prodotto, aumentando esponenzialmente la distanza tra oggetto consumato (cibo) e soggetto consumatore (uomo). Non ci rendiamo più conto della profondità di quello che ci circonda. Il Black Hole Fun qui interpretato da Pao, ci riguarda tutti e o ne prendiamo consapevolezza al prima oppure rischiamo di venirne inghiottiti. Fortunatamente anche in questo l’arte può esserci di aiuto.

Il compito dell’arte è infatti quello di aprirci gli occhi, di mostrarci quello che noi esseri-non-artistici non abbiamo la capacità di vedere.

Spesso scioccando, a volte irritando ma senza mai perdere quella forza comunicativa che contraddistingue ogni artista. Come il genio di Schopenhauer, l’artista vede quel che nessun altro riesce a vedere e ce lo ripropone sotto forma di performance, tele, sculture o, come nel caso di Pao, di un mix pop che fonde arte, design e creatività. E la sua genialità sta proprio in questo. Nella capacità di vedere, in oggetti apparentemente ordinari, qualcosa di unico e assolutamente straordinario. Qualcosa che chiunque altro non riesce a vedere. Passando per paesaggi urbani di una città come Milano, milioni di persone vedono quotidianamente i dissuasori della sosta a forma di «panettone», e nessuno ci vede altro al di fuori di quello che l’oggetto è in sé: un dissuasore della sosta. Pao invece ci ha visto un pinguino e ha lanciato così una delle forme d’arte pubblica più interessanti in Italia. Ovviamente la sua visione non si è fermata al dissuasore della sosta. Negli anni ha visto il ritratto dell’imperatore Rodolfo II a opera del pittore Giuseppe Arcimboldo in un silos tra le campagne piemontesi. Ha trasformato semafori in palme, lampioni in margherite e poi in Chupa-Chups, pompe dell’acqua in cani, cestini in pellicani, scivoli del marciapiede in fette di limone, tombini in finestre, transenne in zebre, sedie in bocche aperte, paracarri in squali e bagni pubblici in lattine di zuppa Campbell’s.
       In questa mostra, Pao ci racconta una società ingrassata ironicamente rappresentata dalla serie Donut 01, 02, 03, 04 dove grosse ciambelle dopate ingannano lo spettatore trasformando il concavo in convesso. Si diverte a riprodurre la tridimensinalità immaginaria di oggetti in due dimensioni. Gioca con la prospettiva e fa sprofondare le persone in vortici in bianco e nero. Accosta soggetti bucolici e naturali al caos colorato di tele come Pacific Trash Vortex dove un vortice di rifiuti con improbabili nomi di marche inventate sembra schizzarci addosso. Il suo Black Hole Fun è una riflessione ironica e profonda sui nostri tempi che ci fa andare oltre la luce iridescente del nostro monitor per svelarci quello che ci sta dietro.

 


 

Chained

abstract dal catalogo: Chained, 2015, Indipendente.
Da quando ho a che fare con la Street Art, l’ho sentita chiamare in molti modi differenti. Urban Painting, Graffitismo, Tag, Writing, Urban Art, Arte Pubblica, Imbrattamento, Urban PopUp, Stencil Art, Post-Graffitismo, Atto Vandalico, Spray-Art, Iper-Realismo, Muralismo e Post-Muralismo. Eppure nessuna di queste definizioni riesce ad esprimere a pieno l’essenza della Street Art. Perché la Street Art è uno tra i movimenti più vivi e dinamici dell’arte contemporanea. E i movimenti, per definizione, non possono essere né fermi né, tanto meno, definiti.
       Lo metto nero su bianco senza esitazioni, la Street Art verrà considerata il movimento artistico d’inizio secolo. Quello che più di ogni altro ha saputo anticipare e interpretare i fenomeni del nostro tempo. Primi fra tutti il concetto di inclusione e partecipazione. In un mondo che sembra andare sempre di più nella direzione di privilegiare l’individuo alla collettività, la personalità del singolo alla pluralità del gruppo, la Street Art è l’unico movimento artistico che unisce e include riportando l’arte al suo senso originale.

L’arte non nasce come espressione del singolo individuo ma come espressione di un’intera comunità. L’arte non nasce per essere un criptico dialogo riservato a un’élite ma come mezzo di comunicazione per tutti che si rivolge a tutti.

Ogni volta che vediamo un’opera su un muro o tra le vie della nostra città e ci chiediamo come mai un artista abbia deciso di dipingere in strada al posto che su una tela ci sbagliamo. La domanda da farci oggi non è perché l’uomo abbia iniziato a dipingere in strada ma perché l’uomo abbia smesso di dipingere in strada. In questa prospettiva, il concetto di «catena», di «chained», si presta molto a definire la Street Art: una catena globale che dalla punta più a Sud dell’America Latina fino alla periferia più a Nord della Russia unisce persone, artisti, stili e pensieri attraverso un unico linguaggio e con un unico fine, quello di portare l’arte a tutti perché tutti hanno il diritto di viverla.
       Ma la bellezza della catena della Street Art non si ferma a questo. Ogni opera, sia essa una scultura, un disegno o un’installazione, non vive da sé ma si nutre e cresce grazie al dialogo con le persone con cui, e per cui, è nata. L’uomo sembra aver dimenticato che lo sviluppo non procede mai secondo una direzione univoca ma solo attraverso un equilibrio dialettico tra tutte le parti, dove ogni elemento della catena arricchisce l’intero sistema. Chained è quindi «Made in Chain», un progetto fatto in catena da un gruppo di artisti, i quali a loro volta hanno chiesto ad altri artisti di unirsi al processo creativo, che si sono confrontati con stili e supporti differenti. Fuori la città, le facciate dei palazzi e il contesto urbano. Dentro le tele, le sculture e le pareti dell’Hangar di Via Amari.
       Tutti gli artisti che hanno partecipato a questo progetto hanno background, stili ed espressioni differenti ma sono uniti dalla volontà di portare la propria arte anche in strada. 2501 combina dipinti murali e su tela, sculture, installazioni, fotografia, video e documentari creando vertigini assonometriche e geometrie minimalistiche. Nell’arte di Atomo c’è il Punk, il Grafittismo, la violenza della Milano anni Settanta e i colori accesi degli anni Ottanta, il collage si fonde con lo stencil e la vita politica si mischia a quella professionale. Borondo usa muri come tele e tele come muri, la sua arte pittorica è al contempo inquietante ed emozionante, cupa e luminosa verso la creazione di corpi leggeri nei tratti e profondi nei lineamenti. BR1, punta a colpire e mettere in luce le contraddizioni del modello capitalista con colori accessi e uno stile immediato e comunicativo che fonde tematiche occidentali con simboli medio-orientali. C215 ritrae a stencil e i suoi soggetti sono interconnessi al tessuto urbano e culturale del luogo in cui le sue opere prendono vita e vengono vissute inaspettatamente da chi ci capita addosso passando per le metropolitane, le vie e i palazzi della città. Con Max Rippon calligrafia, tipografia, pittura, graffiti, digital e scultura si unisco in nome di una vocazione pubblicitaria che attraversa ogni sua opera, i suoi lavori sono messaggi alla città urlati a gran lettere su muri giganteschi. Attraverso grandi sagome nere antropomorfe, Sam3 racconta storie e leggende, le sue «ombre» sono una riflessione in bilico tra poesia e ironia sulla condizione umana e sui suoi significati nel mondo. Sten&Lex hanno inventato un genere, lo «stencil poster» e lo hanno portato in giro per il mondo, attraverso una fusione di stencil, fotografia e grafica creano opere monumentali, eppure effimere, che mutano con il passare del tempo e con il variare della superficie urbana. L’arte di Edoardo Tresoldi non può prescindere dal luogo dove nasce, le sue sculture site specific sono singoli frame di una storia nata attorno ad esse come uno scatto fotografico in tre dimensioni ricostruite attraverso una fitta rete metallica.
       Tutto questo è Chained - una concatenazione di artisti che riflettono sul ruolo dell’uomo su un pianeta che è anche nostro ma che non ci appartiene. Un pianeta in cui il progresso e l’avanzamento tecnologico ci spingono a vedere il mondo da un punto di vista antropocentrico, in cui sembra che la natura esista per soddisfare i nostri bisogni e in cui gli animali e le piante sono visti come beni al servizio di un’umanità giustificata a sfruttarli in nome dello sviluppo.
       Nella città che ospita Expo2015 e si fa portavoce di un tema oggi chiave per il nostro futuro, "Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita” è inevitabile quindi far scivolare la nostra riflessione anche su un’altra catena, quella alimentare. Siamo passati da una logica in cui l’uomo era produttore diretto del cibo che consumava, fino a un estremo in cui l’uomo è divenuto consumatore inconsapevole di dove e come il cibo che consuma viene prodotto, aumentando esponenzialmente la distanza tra oggetto consumato (cibo) e soggetto consumatore (uomo). Con le loro opere, 2501, Atomo, Borondo, BR1, C215, Max Rippon, Sam3, Sten Lex ed Edoardo Tresoldi hanno dato inizio alla catena ora sta a tutti noi prenderne parte.

 


 

Mondo Tondo

abstract dal catalogo: MondoTondo, 2014, Skira. Compra il catalogo.
Pao è un visionario della superficie, un alchimista del colore che fonde il surrealismo pop di Murakami con la schiettezza street di Keith Haring attraverso immaginifici paradossi macchiati da una costante ironia tipica del post modernismo. Le sue opere sono una vertigine pop che, tanto in strada quanto in studio, crea nuove forme d’interazione e situazionistiche interpretazioni del quotidiano.

Pao nasce nel 1977 l’anno del Punk e di Guerre Stellari. Mentre i Sex Pistols violentavano le vette delle classifiche inglesi con il loro primo album “Never Mind the Bollocks, Here's the Sex Pistols”, tutto il mondo veniva travolto dalla saga più pop di tutti i tempi e dalla sua icona più famosa, Luke Skywalker.

Due mondi diametralmente opposti che, per un breve instante storico, hanno convissuto allargando e stravolgendo le concezioni storiche della cultura pop. La profondità di questo momento in cui tutto sembrava un’allucinazione iconica nata dalle luci mediatiche di una nuova era, ha caratterizzato il dna artistico di Pao fin dalle sue prime espressioni in strada. Quello che Pao rappresenta con le sue opere è un mondo fantastico dove i soggetti dialogano con un contesto stravolto e surreale creando vertiginose deformazioni della superficie narrativa. Un’alterazione dalle cromie squillanti che lascia lo spettatore spiazzato di fronte ad astute anamorfosi e prospettive visionarie. Conosco Pao dal 2002 quando ci siamo incontrati per la prima volta durante la seconda edizione dell’happening Illegal Art Show e, fin da allora, quello che più mi ha colpito della sua arte è la sfida costante con la superficie e la capacità di tramutare la materia in qualcosa di ironico ed animato. Attraverso questo velo espressivo, Pao ha tradotto l’emozione di anonimi oggetti urbani trasformando grigi paracarri in pinguini, dissuasori della sosta in delfini, pali della luce in margherite bianche, semafori in palme, bagni pubblici in lattine di Campbell’s.
       Con Pao il rapporto tra l’artista e la superficie pittorica è diventato uno stimolo per creare nuovi dialoghi con lo spettatore e per andare oltre la profondità bidimensionale della tela. Significativa in questo percorso, è stata l’opera “Il Velo di Maya” (300x200, acrilico su legno, 2007) esposta per la prima volta al Padiglione di Arte Contemporanea di Milano all’interno della mostra “Street Art Sweet Art” nel Marzo 2007. Per molti degli artisti invitati a partecipare, questa mostra ha segnato un momento di passaggio molto critico che ha presupposto una necessaria riflessione, tanto concettuale quanto stilistica, sul tema della propria arte prosciugata del fattore street che ne aveva rappresentato fino a quel momento la comune matrice. È stato un momento molto intenso che ho avuto il piacere di vivere in ogni attimo come produttore della mostra e che mi ha dato la possibilità di scorgere chi, tra gli artisti invitati, avesse la sensibilità e la profondità necessaria per mantenere viva la forza della propria arte anche fuori dalla strada. Dopo tre anni, confermo la sensazione che mi diede l’opera “Il Velo di Maya” la prima volta che la vidi. Pao era riuscito a trasferire anche su tela tutta la magia, l’atmosfera e la forte interazione con il fruitore che era riuscito a creare nel suo lungo lavoro in strada. Questo è il suo dna, un dialogo ironico e costante con il pubblico che affonda i soggetti delle sue opere oltre la superficie e li sprofonda in una terza dimensione. Per godere di un’opera di Pao bisogna avvicinarsi, brucarne i colori come in una tela di Van Gogh o in un lungometraggio di Miyazaki, perdersi nelle geometrie astratte e nelle loro sensuali rotondità. Buon divertimento.

 


 

Mine: Self Explosion

abstract dal catalogo: MINE, 2013, Zel.
L’arte non può prescindere dall’essere ir-riverente, ir-ruente, ir-ritante, ir-ripetibile, ir-regolare, ir-razionale, ir-rompente e da tutti quegli ir- che la rendono, prima di tutto, viva e la fanno vibrare tra le strade e, soprattutto, tra le persone. L’arte non è fatta per essere solo guardata, l’arte va vissuta e partecipata. Se l'arte dialogasse, come spesso accade, solo con chi fa parte del mondo dell'arte, perderebbe il suo senso d'essere. L'arte è un'esplosione fortissima del sé che colpisce tutti. Uno shock del sistema. L'unica vera forma di rivoluzione globale. Perché l'arte è di tutti e per tutti. I dadaisti dicevano che in arte le regole sono come le medicine, per crederci bisogna essere malati. Concordo, non possiamo mettere regole all’imprescindibile diritto dell’essere umano di esprimere il proprio sé attraverso l’arte. Credo nell’arte e nella potenza rivoluzionaria di un artista. “MINE” è, nella sua accezione anglosassone di mio, l'essenza stessa della persona, la sua parte più interiore e privata, l'unica realmente propria. E “MINE” è, nella sua accezione italiana di mina, una metafora della personalità esplosiva dell'artista tanto ingovernabile quanto visionaria. Perché questa è l’essenza vera di un artista. La sua profonda sensibilità. Un artista è una porta che vede prima di chiunque altro la profondità delle cose e ne da’ una traduzione alle masse così che tutti possano aprire gli occhi. Non si può essere artisti part-time.
       L’essenza dell’artista è qualcosa che irradia la vita intera e non lascia via d’uscita. L’artista non è il suo prodotto. L’artista è la sua stessa vita. L'artista è se stesso. Pensiamo ad un artista come Salvador Dalì. La sua vita è uno schiaffo in faccia al vivere quotidiano è una celebrazione continua di se stesso e del suo mondo. La forza con cui si prende gioco della società borghese che lo venera come fosse un Dio mentre lui sporca un foglio con un pennello intriso di acrilico nero è la sintesi della sua genialità. Una genialità quasi arrogante e, proprio per questo, totale, senza limiti, con un potere che travalica ogni istituzione, ogni luogo comune. Un mettersi in gioco senza compromessi con la sola convinzione che nel proprio futuro, parafrasando i The Clash, o ci sarà la gloria o ci sarà la morte. Ed è proprio attraverso la personalità eccentrica dell'artista che l’arte torna a svolgere il suo fine più importante. Comunicare. Sorprendere. Shockare. Perché è proprio lo shock uno dei concetti più attuali dell’arte contemporanea. Un tema chiave per comprendere le dinamiche che da Warhol a Hirst ne hanno dettato i paradigmi. Lo squalo in formaldeide di Hirst nasce per shockare. Le prostitute di Teheran dell’artista iraniana Shirin Fakhim nascono per shockare. Il bambino con il tamburello di Cattelan, come le gigantesche sculture di Ron Mueck o quelle perverse dell’artista americano Paul McCarthy o dei Chapman Brothers nascono per shockare.
       Questo è il compito di un artista. Avere il coraggio di usare la propria sensibilità per cambiare il mondo. Governare la propria esplosione del sé. E quale momento migliore di questo per farlo. Dagli errori del passato purtroppo l'uomo sembra non aver imparato nulla. Da una parte del mondo si conservano pezzi di muro come feticci di una vergogna storica che, giuriamo, mai riaccadrà, mentre dall’altra parte del mondo si costruiscono muri sempre più alti come se le lezioni della storia si fossero frantumante di fronte all’arroganza del presente. E' solo dal futuro che l'uomo potrà imparare a cambiare il presente. E solo gli artisti hanno la follia necessaria per vedere il futuro. Concludendo quindi, con una citazione da guerriero della notte, se sei artista come out and play perché questo è il tuo tempo.

 


 

Nespoon

abstract dal catalogo: Intralci, 2011, Skira.
L’arte per Nespoon è un atto d’amore puro e incondizionato per il territorio. Ogni sua azione, ogni suo tratto, ogni sua espressione nasce con il fine di valorizzare quello che la circonda. Tutto diventa parte di una grande opera d’arte dove il contesto si fonde con il gesto artistico. Nespoon irretisce. Costruisce tele di merletti e pizzi tra i tronchi di un albero, scolpisce opere d’argilla tra le crepe di muri dimenticati dal tempo.
       Si innamora degli spazi urbani e dialoga con la natura. “Quando creo ho bisogno di sentire quello su cui sto lavorando. Ho bisogno di instaurare un rapporto intimo con la superficie che sto andando a modificare. Non mi basta vedere. Devo andare oltre la vista. Immergermi nella materia. Toccarne l’essenza. Sprofondare nella bellezza del tempo.” I suoi sono gioielli per la città. È artista da sempre e street artist per vocazione. “L’arte in galleria è troppo noiosa per essere considerata arte viva. L’arte ha bisogno di respirare il profumo della gente. Deve tornare a trasmettere emozioni vere e sentite da tutti.”

L’emozione è una delle tematiche chiave delle opere di Nespoon, tanto l’emozione intesa come ispirazione da cui nasce la sua arte, quanto l’emozione condivisa nel momento in cui l’arte viene inaspettatamente fruita da chi la incontra per strada, tra le vie del centro, su un monumento, su un tronco d’albero o in uno dei molti luoghi che stimolano la fantasia produttiva dell’artista polacca.

Spesso i suoi interventi sono talmente eleganti e rispettosi che si fondono con il territorio e vederli è quasi una scoperta, una sorpresa inaspettata. Ogni opera è pensata per rispettare il luogo che la ospiterà. La forma è studiata per la superficie dove verrà realizzata. I colori rimandano alle sfumature che la circondano e la posizione è frutto di un’ispirazione o, meglio, di una visione d’insieme dove opera e territorio sono concepite come un unico elemento. Anche il suo lavoro come attivista politica va in questa direzione. Una costante e instancabile lotta contro l’inquinamento mediatico della pubblicità urbana. Da anni l’artista porta avanti un’importante campagna di sensibilizzazione sui danni dell’urban advertising che, come un morbo, stanno distruggendo la bellezza della sua città natale, Varsavia. Un percorso sociale che s’inserisce perfettamente nel contesto e nella filosofia artistica di Nespoon che tanto come artista quanto come attivista lotta per la valorizzazione del territorio e per difendere la sua naturale bellezza.
       Le sue prime opere di street art nascevano proprio con l’esigenza di creare qualcosa di bello per i cittadini futuri della sua città, i bambini. “Street Art for Kids è un progetto nato senza pensare, così di getto, come gran parte della mia arte. Esco di casa vedo un luogo e comincio a immaginarmi come potrebbe essere con la mia arte. Molti artisti si fermano a pensare a cosa fare. Io no.” La stessa energia istintiva sta alla base di tutta quella che l’artista stessa definisce Aesthetic Guerrilla, un termine forte, quasi stridente, ma che ben sintetizza la delicatezza e, al tempo stesso, l’irruenza della sua arte. Un equilibrio che ricorda molto l’opera, forse più famosa, di uno degli artisti chiave nella formazione artistica di Nespoon. L’artista inglese Banksy e, in particolare, il suo guerrigliero con in mano il mazzo di fiori. Quelli che per Banksy sono fiori, per Nespoon sono enormi merletti, ispirati a quelli della sua città natale, che l’artista dipinge su muri, case e facciate cieche di tutto il mondo valorizzando e fondendo la storia del luogo con il suo pensiero artistico e filosofico.

 


 

Intralci

abstract dal catalogo: Intralci, 2011, Skira. Compra il catalogo.
La Franciacorta è un flusso. Un flusso di colline, paesaggi, idee, passioni e, soprattutto, persone. Un flusso che nei secoli si è rinnovato e re-inventato e che, grazie all’ingegno delle persone che l’hanno generato, ha saputo cambiare senza mai interrompersi. Carpire questo flusso è facile. Basta perdersi tra le sue vie, i suoi miti e le sue storie. Oppure rimanere fermi, immobili, all’interno del monastero di San Pietro in Lamosa a Provaglio d’Iseo, in silenzio, e lasciarsi avvolgere da più di settecento anni di storia rinchiusi in cima a un colle di fronte alle Torbiere del Sebino. Arte pagana che si mescola con volte gotiche e pitture rinascimentali. Altari settecenteschi davanti a muri d’epoca romanica che raccontano di miti e storie medioevali fino a perdersi nella cappella barocca di fronte all’entrata del monastero. I flussi dell’arte e della storia si uniscono per raccontarci il passato di una terra prima di tutto viva. Una terra che non si è mai fermata. Una terra capace di adattarsi, di mutare e di re-interpretarsi.
       E la Franciacorta, come la conosciamo noi oggi, è frutto dell’impegno e della passione di tanti vignaioli che sull’onda dell’intuizione dell’enologo Franco Ziliani, che nel 1961 sigillò la prima bottiglia di Franciacorta, hanno trasformato una terra troppo povera per l’agricoltura nel territorio ideale per la produzione del vino. Una delle tappe del flusso inarrestabile che rende questo luogo unico e affascinante. Lasciarsi ispirare è stato assolutamente naturale per ognuno degli artisti invitati a partecipare al progetto. Dalle leggende più lontane ai paesaggi delle Torbiere, passando per i miti sulle origini del nome “Franciacorta” e i monasteri, le chiese, i vigneti, le cantine e il lago d’Iseo. Il flusso della Franciacorta si è trasformato in un flusso di creatività inarrestabile che ogni artista ha tradotto in maniera differente. È stato infatti importante per l’intero progetto che il territorio non fosse solo la fonte d’ispirazione ma anche il suo naturale contenitore. La possibilità di allestire il laboratorio dove gli artisti hanno lavorato all’interno di una vecchia cantina situata in via Ignazio Berlucchi a Borgonato ha completato una sinergia nata e cresciuta all’interno dello stesso territorio. È stata un’immersione totale, abbiamo respirato, vissuto e mangiato questa terra per dieci giorni di seguito e le opere d’arte prodotte ne sono la testimonianza più genuina.

Il progetto “intralci” nasce infatti con la finalità di creare un’esperienza artistica en plein air dove la fusione tra arte e territorio fosse totale.

Dove l’arte divenisse il mezzo per valorizzare un luogo che fosse a sua volta la principale fonte d’ispirazione per ogni artista. La Franciacorta diventa così sia il fine sia il mezzo di questo progetto. Ogni artista ha lavorato sulla e dentro la Franciacorta avendo la possibilità di immergersi nel territorio e di creare con la massima libertà interpretandolo, segnandolo e facendolo suo. Seguendo questo pensiero, non a caso, ho selezionato dieci artisti provenienti da diversi paesi che avessero una naturale e istintiva propensione a lavorare con il territorio. Nonostante appartengano ognuno a una corrente artistica differente, tutti utilizzano il contesto pubblico come elemento dialettico necessario per la creazione della propria arte.
       Dalla street art di Bros alle video installazioni dell’artista serbo Vladimir Jankovic, passando per la poesia visiva di ivan, la pittura espressivo-rinascimentale di Giovanni Manzoni Piazzalunga e quella pop di Salvatore Benintende, fino alla light calligraphy dell’artista francese Julien Breton, i pizzi della polacca Nespoon, le alchimie visive di DEM, le fotografie di Pietro Masturzo e le prospettive liquide di Paolo Bordino. Ognuno ha dato la propria interpretazione del territorio con ogni mezzo. Come curatore, ho infatti voluto creare un’unica grande installazione composta da dieci opere dove lo spettatore potesse interagire e “avere a che fare” con la Franciacorta attraverso la sua declinazione in opera d’arte strutturata su suggestioni visive e sensoriali. Un’idea ispirata al concetto più universale e di stampo heideggeriano dell’esserci, dell’essere gettato dentro il mondo, o, come in questo caso, dentro il territorio. Penso infatti che l’arte sia il mezzo migliore per creare quest’emozione condivisa e partecipata. Un’esperienza che, grazie all’arte, permetta di avere una visione più profonda della Franciacorta.
       È per questo motivo che anche nel nome ho cercato un termine nuovo che fondesse insieme il concetto di essere in un territorio e di creare arte. Nasce così il titolo “intralci”. Intralci, come i tralci di vite che s’intrecciano tra loro e rappresentano, attraverso una metonimia, l’intero territorio della Franciacorta e gli intralci dell’arte contemporanea che si fondono con la vita di tutti i giorni creando nuovi stimoli e nuovi punti di vista. L’opera di Bros in Franciacorta è stata un intralcio per il territorio. ivan si è lasciato intralciare dal territorio scrivendo poesia per tutta la Franciacorta. Nespoon ha tessuto i suoi pizzi tra i tralci della vigna creando un intralcio artistico che ha ostacolato il passaggio tra i vigneti. Julien Breton ha disegnato nell’aria intralci di luce nella notte. Pietro Masturzo ha fotografato i braccianti tra i tralci e gli intralci dei trattori nelle strade della Franciacorta.

 


 

DEM

abstract dal catalogo: Intralci, 2011, Skira. Compra il catalogo.
Non so perché, ma ogni volta che mi trovo davanti a un’opera di DEM penso ai fratelli Marx e, nel particolare, alla splendida metafora ideata dal filosofo sloveno Slavoj Žižek che vede in Chico, Groucho e Harpo il ritratto più fedele della triplice partizione della psiche umana (Ego, Superego e Es). Le opere di DEM m’incantano sempre, nell’accezione più genuina d’incanto come qualcosa in cui perdersi come in un labirinto di citazioni, storie, miti e abissi. La sua estetica così lineare ed essenziale quasi stride con la profondità dei suoi contenuti. Immagini criptiche, citazioni vertiginose e personaggi ir-reali sono l’essenza stessa del suo operare in perfetto equilibrio tra razionale e irrazionale. Tra reale e ir-reale. Viene da chiedersi cosa sia nato prima nelle sue opere, se la realtà o l’immaginazione. È l’immaginazione che ha ispirato la realtà o è la realtà che ha ispirato l’immaginazione? Difficile rispondere a questa domanda senza correre il rischio di perdere la spontaneità di fruizione delle immagini di DEM.
       Penso che la sua definizione più veritiera sia quella di affabulatore. Un artista che traduce la realtà in favola o, in alternativa, riporta la favola della realtà su tela, muro o scultura. La sua narrazione artistica è un gioco a due prima di tutto con se stesso dove il disegno diventa la rappresentazione concreta di una visione che prende vita dalla realtà per poi seguire percorsi e diramazioni assolutamente favoleggianti.
       Per DEM l’arte ha da sempre un fine essenziale, tanto per chi la produce quanto per chi la fruisce, esorcizzare i demoni della società, liberarne il lato più puro e riproporlo sotto il linguaggio immediato e universale dell’arte visiva. È questo il motivo che ha spinto l’artista a dipingere fin da piccolo in strada, tra la gente e nelle vie per raccontarsi in prima persona per condividere i propri demoni con tutti e liberarsene. Un’arte quasi catartica che lo ha portato a dipingere in tutto il mondo e su qualsiasi superficie. In uno dei suoi ultimi lavori fatto a Wroclaw, in Polonia, DEM ha dipinto un enorme murales in cui ritrae un’umanizzazione della natura in cui il corpo è fatto di foglie e la testa è un intreccio di profonde radici. In quest’opera c’è molto tanto dell’estetica quanto della filosofia di DEM. A partire dal tratto essenziale e dai colori piatti e squillanti che non lasciano indifferenti i passanti e li costringono a voltare lo sguardo come di fronte a un grande sole.
       Così come il tema della natura che è, sempre di più, uno dei punti chiave della dialettica artistica di DEM. Nato come artista di graffiti abituato a confrontarsi con un tessuto urbano e una società meccanica che ci costringe a un vivere lontano dalle nostre radici, ha trovato nella natura e nelle sue dinamiche il giusto bilanciamento dialettico. “Sono sempre stato affascinato dalle fabbriche abbandonate, mi trasmettono al tempo stesso un senso di poesia e tristezza, come dei relitti della società contemporanea. Nel mio percorso artistico ho dipinto fabbriche, case e interi palazzi cercando sempre di creare un mix di simboli, colori e forme geometriche che si armonizzassero fra loro e, soprattutto, con il contesto di riferimento. Ma è nella natura che trovo la massima espressione dell’uomo e della società”. Non stupiscono quindi le ultime sculture di DEM fatte con materie prime naturali. Foglie, tronchi, rami, radici. Tutti elementi con cui l’artista si è scontrato per caso e di cui è riuscito a vedere il senso nel loro insieme.

 


 

TvBoy: MashUp

abstract dal catalogo: TvBoy MashUp, 2010, Indipendente. Compra il catalogo.
Mash up è prima di tutto una storia. Una favola contemporanea che contiene al suo interno tante storie o, meglio, tanti frammenti di storie nei quali tutti possono ritrovarsi perché tutti ne sono stati attraversati. Una mostra articolata in cui il pubblico è invitato a immergersi tra le visioni e i colori di una contemporaneità frammentata e di un passato rimescolato e riproposto in chiave pop. Una storia raccontata attraverso tre momenti che sintetizzano le radici, la filosofia e lo stile dell’artista Salvatore Benintende, alias Tv Boy.
       Nel primo capitolo della mostra, dal titolo ironico e provocatorio di Il-legale arte, abbiamo voluto raccontare le origini urbane dell’arte di Tv Boy, la sua crescita come icona della street art, la strada come mezzo d’espressione libero, e la sua evoluzione in artista pubblico. Il secondo capitolo, dal titolo Re Nudo, parla della filosofia di Tv Boy e del suo rapportarsi con il controverso mondo dell’arte visto attraverso una sensibilità genuina, quasi adolescenziale, che lo porta a stupirsi dell’Altro che diviene, nelle sue tele, strumento dialettico per la sua arte. La mostra si chiude con il capitolo Frammenti Pop dove Tv Boy produce alterazioni del tempo giocando con icone storiche già depositate nell'immaginario collettivo ma riproposte sotto le vesti auto-citazioniste del Tv Boy immerso nella natura del XX secolo. Non a caso, abbiamo voluto aprire questo catalogo con una citazione falsificata. Una meta-citazione di Majakovskij re-interpretata dall’artista che ne ha traslato il piano politico in piano artistico, de-contestualizzandone i termini. Non siamo più nel contesto politico della Russia d’inizio Novecento scossa dalla Rivoluzione d’Ottobre ma siamo in quello artistico dei primi anni del Duemila dove l’arte contemporanea è stata svuotata della sua essenza di arte pubblica e dove la sua unica speranza di rinascita sembra essere la strada.

 


 

Poesia Viva

abstract dal catalogo: PoesiaViva, 2009, Skira. Compra il catalogo.
ivan è un poeta con una romantica sensibilità artistica che discioglie in ogni sua produzione, fuori e dentro la strada, con un’energia esplosiva che precipita nella volontà di portare la poesia a tutti, perché tutti hanno il diritto di viverla. ivan parla a chiunque incontri sul suo cammino, dialoga con gli sconosciuti, affabula i passanti e irretisce chi lo guarda male con sorrisi e sguardi in bilico tra la romanticheria bohemienne e la sfacciataggine di chi, sempre e comunque, si getta controvento.
       ivan spiega a tutti il perché del suo sprofondar poesia ovunque e del suo gettar parole tra le vie, nella costante ricerca di una dialettica che lo porti a sperimentare sempre nuove forme di interazione con chi poi sarà il vero attore protagonista della sua poesia, tanto da disarmare e stravolgere i normali canoni di fruizione e definizione di un’arte sempre più racchiusa in schemi dettati da mode isteriche e coefficienti vertiginosi. Proprio per questa sua poliedrica attitudine all’arte e alla poesia, è impossibile rinchiudere ivan all’interno di un’unica categoria che possa rappresentare la sua viva coscienza artistica.
       C’è chi lo ha definito poeta e gli ha proposto di pubblicare una raccolta di poesie. C’è chi lo ha considerato, e tuttora lo considera, un grafittaro, se non addirittura tra i “grafittari più famosi d’Italia”. C’è chi lo ha considerato un imbrattatore al pari di chi distrugge Milano con tag prive di contenuto. C’è chi lo definisce un pittore, chi uno street artist, chi un writer, chi un dj e chi, dopo averlo visto suonare sul palco con i Revolution Republic, una rock star. In ivan c’è tutto questo e questo gli permette di essere sempre e comunque al di fuori di qualsiasi canone convenzionale. Eppure in questa varietà di definizioni ed espressioni esiste un unico grande filo rosso che accompagna ivan in ogni sua produzione: la sua naturale e genuina sensibilità per l’Altro.
       ivan è prima di tutto un poeta capace di vedere oltre le barriere del sistema e le ipocrisie del contemporaneo. Un poeta-artista capace di cogliere l’essenza delle cose e delle persone e tradurla in versi e immagini tanto sinceri quanto seduttivi. Ed è proprio l’esistenza di questa sensibilità che io ritengo fondamentale per la sempre più difficile definizione della personalità di un artista. Con la sua prima scaglia “Chi getta semi al vento farà fiorire il cielo”, scritta d’istinto sul parapetto della darsena di Milano nel Dicembre 2002, ivan ha gettato le basi di tutta la sua produzione artistica degli ultimi sei anni. In quel verso è racchiusa la volontà e la potenza che sta alla base dell’arte di ivan. Una volontà fatta di libertà, ironia e consapevolezza di un presente grigio e disarmante, tanto da spingerlo a lasciar la terra a chi crede ancora che i semi gettati al vento siano semi sprecati e non si rende conto che i fiori non si raccolgono più abbassando lo sguardo, ma si fanno fiorire alzando gli occhi.

 


 

TvBoy

abstract dal catalogo: Start a Revolution Without Weapons, 2008, Drago. Compra il catalogo.
Tv Boy è figlio del post modernismo e del mash up cross-mediatico. Le sue opere sono una carnevalizzazione bacthiniana del contemporaneo dove stili, citazioni e influenze si riversano sulla tela come frammenti di un passato dall’estetica street pop e dal retrogusto neo-punk. Partendo dalla strada come proprio mezzo d’ espressione Salvatore Benintende, alias TvBoy, ha fatto della propria arte una sperimentazione continua di linguaggi comunicativi e artistici dove i mass media diventano allo stesso tempo ispirazione e negazione della propria ricerca. “Spegni la televisione e sii protagonista della tua vita”. Con questo messaggio, semplice e universalmente comprensibile, l’artista ha dato vita al suo alterego creativo, un bambino di pochi anni che con genuina sensibilità osserva un presente frantumato in flussi meticci e mescolanze di stili. Tutti elementi che si ritrovano nei lavori di Salvatore Benintende, tanto in strada quanto in studio.
       Osservare le sue tele è come guardare “Lo zoo di Venere” di Peter Greenaway o “Pulp Fiction” di Quentin Tarantino attraverso i frame frammentati della navigazione via etere. La sua arte è una meta-narrazione della contemporaneità fatta di rimandi e citazioni di un passato che rivive in un gioco a due dove lo spettatore viene invitato a partecipare al dialogo dell’Arte. TvBoy ha reinterpretato tutti i suoi eroi. Da Roy Lichtestein a Milton Glaser. Da Salvador Dalì a Andy Warhol, in una costante customizzazione del proprio passato.

Nelle sue tele lo spirito rock – grunge delle copertine dei Guns and Roses e dei Nirvana si fa strada tra i feticci dell’iconografia e dell’immaginario pop attraverso una mescolanza ironica degno di un assemblage culturale alla Adrian Tranquilli.

Come l’artista postmoderno mescola simboli antropologici e archetipi religiosi a supereroi e iconografie da fumetto così TvBoy riflette con la stessa ironia sulle figure che hanno caratterizzato il suo tempo, alludendo ad un’incertezza, tipica di questo secolo, in cui “tutto è possibile e niente è vero”. La sua essenza di artista sta proprio nella sensibilità con cui osserva la realtà che lo circonda. Una sensibilità genuina, quasi adolescenziale, che, come per il fanciulletto di Pascoli, lo porta a stupirsi dell’Altro che diviene, nelle sue tele, strumento dialettico per la sua Arte. All’ironia del postmodernismo e alla capacità di mixare stili e strumenti tipica del mash up mediatico, l’artista aggiunge tutta la vis espressiva della street art, movimento che ha adottato fin dal suo nascere. In strada, Salvatore Benintende veste i panni di TvBoy, personaggio perso a metà strada tra la tenerezza del bambino e l’irruenza dell’illustrarocker, che lascia il proprio segno in giro per tutta Europa, dalle vie di Milano dove è facile vedere suoi lavori, spesso affiancati a quelli di altri street artist, alle periferie di Barcellona che l’artista ha scelto come suo atelier creativo.
       La sua diviene così un’arte pubblica fruibile da tutti, che sorprende e irretisce. Affabula e stupisce. Riuscendo a resistere, grazie alla sua unicità, persino al terrorismo anti-graffito che, in questo periodo, domina Milano dove, senza criterio, tutti i muri della città stanno tornando grigi come la sua aria. Il modo migliore per conoscere l’arte di TvBoy è camminare per le vie delle città che lo hanno ospitato e cui l’artista ha regalato angoli di colori. Dal graffito con il poeta di strada ivan in Via Cassala a Milano alla slavina di sticker con cui TvBoy ha customizzato le città di tutta Europa. Tanto in galleria quanto in strada Salvatore Benintende riversa la propria arte, immaginando mondi onirici e sognando storie immaginifiche mentre scivola, con squisito equilibrio, tra arte e design, tra illustrazione e comunicazione invitando tutti a prender parte alla sua rivoluzione senza armi. Come out and play!

 


 

Empire Street Building

abstract dal catalogo: Scala Mercalli, 2008, Drago. Compra il catalogo.
La street art si ritrova oggi persa a metà strada tra le stelle e quel che è solo un luccichio artificioso. Tra un passato di illegalità, libertà e bomboletta e un futuro incerto fatto di istituzionalità ambigue, muri bianchi e gallerie claustrofobiche. Siamo nello “stadio del simulacro” della street art dove la finzione dell’arte rappresentativa di strada è diventata finzione di se stessa, attraverso la meta rappresentazione di un’arte che si è costituita come consapevole e ricercata duplicazione di una realtà urbana. Una spettacolare inversione di rotta che pone la street art in una nuova dialettica di fruizione dove non è più l’opera ad andare incontro al pubblico, attraverso il canale universale della strada, ma è il pubblico che incuriosito va ad esplorare il mondo della street art attraverso i canali più educati delle istituzioni e dei suoi spazi bianchi dove il godimento e la percezione dell’opera si fanno meccanici e fittizi.
       La street art è oggi come l’Empire State Building visto attraverso la pellicola sgranata di Andy Warhol dove l’oggetto in sé viene elevato ad opera d’arte solo perché ufficializzato da una ri-presa d’autore che ne segna il passaggio da oggetto urbano ad oggetto artistico. Un’astuta operazione di art fiction che porta dentro i confini di un nuovo immaginario la rappresentazione della realtà che trova, solo all’esterno, la propria realizzazione completa. Oggi la macchina da presa non è più l’occhio gelido di Warhol che ritrae con fredda oggettività una rinascita artistica e sociale fatta di comunicazioni di massa e riproduzioni in serie. Oggi la chiave di volta è il meccanismo stesso dell’arte contemporanea che cristallizza la street art e la rende prigioniera di un sistema basato su una dialettica paradossale e perversa per cui la non-street-art, rappresentata dalla finzione della street art posta sotto la bacheca sterile della galleria, è più-street-art della vera essenza della street art che non può che trovarsi in strada, riducendo le mostre a immersioni totali in un’opera di non-street-art.
       Seguendo questa direzione i lavori sui muri e nelle strade vengono cancellati in nome di un ordine apparente mentre quelli esposti in galleria vengono scanditi da vertiginosi coefficienti di vendita. Siamo di fronte ad un’altra vittoria dell’immaginario su un simbolico ormai frantumato dall’era del bombardamento mediatico. Tutto viene valorizzato solo se alleggerito della propria sostanza e messo sotto i riflettori mediatici contemporanei. Come se il piano dell’essenza della street art si fosse spostato da quella che un tempo era la sua reale sostanza.

La street art svuotata della strada trova la sua consacrazione nell’istituzione dell’arte contemporanea divenendo così un’arte edulcorata che sfugge le dinamiche tradizionali di fruizione, ma ne rispetta i limiti e le regole riducendo così l’impero della street art come l’aria dentro la bomboletta che l’ha generata.

Sotto costante pressione. Mediatica, artistica, economica e legale. Sempre ad un passo dall’esplosione. In bilico costante tra l’esser bolla o l’esser parte di una storia dell’arte nuova che vede nella street art un respiro alternativo alla claustrofobia dell’arte concettuale. Il calderone mediatico che ha caratterizzato questa espressione fin dal suo nascere, i vertiginosi coefficienti di Banksy e l’apertura della street art al perverso mercato dell’arte contemporanea hanno posto le basi alla fine del mondo della street art proprio nel momento del boom della sua crescita culturale. Perché tutto è divenuto street art. Senza distinzioni. Così, nella mostra più grande mai organizzata sulla street art italiana, tutte le arti sono egualmente accettate. Dalla poesia di ivan alle illustrazioni di fupete. Dall’arte pop di tv boy alle sculture di joys. Perché nessuno vuole perdere il treno della street art. E, anche se pieno, tutti vogliono il loro posto riservato per dimostrare come, in fondo, la strada non sia altro che un canale di comunicazione per un’arte che va oltre i luoghi comuni e le critiche sterili.
       Perché la forza della street art sta proprio nella sua capacità di essere tutti i movimenti contemporaneamente senza esserne realmente nessuno. Nella street art c’è poesia, grafica, illustrazione, scultura, pittura e light design. La street art è un melting pot di secoli di arte spalmati tra le fessure di contesti urbani ridisegnati dove l’energia irriverente e coinvolgente dei primi happening firmati Kaprow e Cage si mescola alla forza materica delle superfici mangiate da Tapies, Pollock e Dubuffet. Dove l’immediatezza comunicativa del neo-dadaismo e del situazionismo si fonde all’ironia frammentata del post moderno e alle iconografie religiose del tardo Medioevo.
       La street art non è un movimento d’arte facilmente incastrabile in regole e manifesti. La street art è un’attitudine al conquistare spazi sempre più grandi con la stessa energia che spingeva i Guerrieri della Notte nella loro fuga verso Coney Island. In questa mostra, come un anno fa al Pac, abbiamo creato un ritratto soggettivo di uno dei tanti immaginari contemporanei della street art, cavalcando la scossa di un terremoto che, nonostante tutto, ha ancora il suo epicentro in mezzo alla strada.

 


 

Bros 20e20

abstract dal catalogo: Bros 20e20, 2008, Skira. Compra il catalogo.
Bros è un griot dell'immaginario collettivo. Racconta storie. Si fa ambasciatore di brandelli di un simbolismo perduto. Affabula e colpisce. Nel regime del sovraccarico mediatico dove l'immaginario si infrange e si ricompone tra le frange di una comunicazione sempre più caotica e frastagliata, Bros riporta l'arte alla sua funzione primordiale di mezzo di comunicazione per la massa in assoluta contro-tendenza con il minimalismo e il concettualismo contemporaneo.
       Le sue tele sono frammenti di un patchwork dove il peso della storia e della memoria collettiva viene alleggerito da un simbolismo essenziale. Le sue opere in strada sono la sintesi di un'urgenza interpretativa propria della liquidità del contemporaneo che soffoca e non lascia spazio. In questa direzione Bros rappresenta a pieno il nostro canone di artista tanto da spingerci a produrre questa mostra. Un artista completo che crede a tal punto nella propria arte da farla vibrare nelle strade e portarla a tutti. Perché tutti hanno il diritto di viverla. Dal gallerista annoiato da un mercato auto-referenziale ormai fatto solo di concettuali monotonie, alla casalinga di Voghera che inciampa nei suoi muri quando il sabato va a far la spesa. Perché la sua vera arte è il saper tirar di scherma meglio di chiunque altro. Bros colpisce al momento giusto. Reinterpreta il mondo che lo circonda con un linguaggio universale fatto di simboli e colori. Cibo per gli occhi che semina tra le vie facendo crescere fiori dove chiunque vede solo palazzi.
       Bros è un comunicatore sottile e irriverente. Ironico e strafottente. Difficilmente classificabile in una corrente artistica. Ho sempre ritenuto la street art più un canale d’ espressione che un vero e proprio movimento artistico. Street artist è colui che sceglie la strada come mezzo per diffondere la propria arte e farla fruire ad un pubblico molto più ampio di quello che si può raggiungere con uno spazio espositivo istituzionale. Ivan è prima di tutto un poeta che sceglie la strada come pagina bianca per le sue poesie così come l'artista francese Jr è prima di tutto un fotografo che sceglie i muri come proprio spazio espositivo.

Così Bros è prima di tutto un ottimo pittore capace di sintetizzare gli eventi che hanno caratterizzato la storia del mondo in tratti semplici e universalmente comprensibili.

Il suo è un simbolismo pop chiaro e diretto. Nelle sue tele Bros sembra prendersi la rivincita da tutta la velocità cui lo costringe il dipingere in strada. La mitologia riaffiora tra le linee spesse dei suoi contorni neri, nel dettaglio di ogni particolare e nei colori prodotti apposta per ogni singola opera. Come in un film di David Lynch, incastrato nell'iperbolico effetto del mondo teatro, Bros si muove in equilibrio tra l'immaginario e il mito. Tra l'ordine delle tele e il caos della strada. Tra la storia e i luoghi comuni che la costruiscono creando immagini attraverso simboli al di la di tutte le relatività culturali. Ma anche no.

 


 

5 Degrees Under

abstract dal catalogo: 5 Degrees Under, 2007, Indipendente.
La street art si ritrova oggi 5 gradi sotto l’istituzionalità di ambienti sempre più neutri e 5 gradi sopra un passato di illegalità e bomboletta su muro. Dopo il successo di mostre come “Street Art Sweet Art” presso il Padiglione di Arte Contemporanea di Milano e “Street Art” alla Tate Gallery di Londra, la street art sembra aver finalmente guadagnato un posto fisso all’interno dell’Olimpo del sistema dell’Arte universalmente condiviso. Eppure, la street art continua il suo percorso avanguardistico anche fuori dai canali istituzionali come le gallerie e i musei facendosi sentire tra le strade e vibrando sui muri delle città di tutto il mondo.
       Da Banksy a Londra a JR a Parigi. Da Tv Boy a Barcellona al collettivo dei London Police a Londra. Osannata e osteggiata come un supereroe dei fumetti della Marvel, la street art è forse una delle avanguardie artistiche che più di tutte ha coinvolto e relazionato il proprio pubblico, colpendo ed emozionando come poche correnti sono riuscite a fare nell’ultimo secolo. Perché la street art colpisce dritto negli occhi del proprio spettatore con tutte le armi a sua disposizione. Dalla poesia all’illustrazione. Dalla fotografia alla scultura. Quello che importa è il messaggio e la capacità di propagarlo il più possibile per condividerlo e portarlo a tutti, perché tutti hanno il diritto di godere dell’Arte e delle sue molteplici declinazioni.
       Per questa mostra abbiamo selezionato cinque tra i principali esponenti della street art italiana al fine di dare, attraverso le loro opere, una panoramica della molteplicità di stili e espressioni che caratterizza questa avanguardia. Dalle poesie di ivan che da cinque anni utilizza le strade di tutto il mondo come pagine bianche per le sue poesie, alle figure mistiche e allo stile neo rinascimentale di Gionata Gesi Ozmo artista chiave della primavera dell’arte italiana. Dallo stile pop illustrativo di TvBoy che, nato tra le strade di Milano, ha raggiunto la maturità artistica passando per le gallerie di Copenaghen, Barcellona e Amsterdam, fino alle grafiche di Microbo e Bo130, artisti riconosciuti in tutto il mondo come i precursori della street art italiana.
       Un melting-show capace di parlare ad un pubblico trasversale affascinandolo e stupendolo con la sua forte impronta comunicativa nata dall’influenze situazioniste e dal detournement del quotidiano unita ad una consapevolezza pop tipica della street art. Una mostra site-specific pensata e realizzata direttamente sul luogo che è divenuto, per l’occasione, oggetto dell’installazione trasformandosi così in contenitore e contenuto della mostra. Ogni artista ha infatti interpretato il proprio spazio espositivo come un muro andando oltre la normale superficie di fruizione artistica e re-inventandosi, tanto in strada quanto in gallerie, nuovi mondi artistici e comunicativi.

 


 

Walhalla Street

abstract dal catalogo: Street Art Sweet Art, 2007, Skira. Compra il catalogo.
La street art è indomabile, sexy e caustica. Non ha confini predefiniti, provoca con sensualità e altera le superfici con cui viene a contatto. Colpisce e si dilaga come un virus che fa della strada il proprio media e del graffio il proprio strumento di propaganda. Nata dalla caotica spontaneità improvvisata di Twombly e dal primitivismo “bruto” e informale di Dubuffet, la street art è la risposta artistica al cannibalismo consumistico e al bombardamento mediatico di fine secolo.
       Soffoca l’horror vacui della città in una vertigine di adesivi, stencil e manifesti che ricoprono muri, pali e palazzi, trasformando situazioni urbane in opere di arte contemporanea pubblicamente fruibili. Quello che mi ha sempre affascinato della street art è la sua anima punk. Quella nata nel ghetto alla fine degli anni Settanta. Quella di A. One, di Ronnie Cutrone e di Basquiat. Quella scolpita sui muri di New York, città-tempio della cultura post moderna, dove Futura 2000, Buggiani, Haring, Taki 183 facevano del contorno urbano la propria galleria a cielo aperto, lasciandosi guidare unicamente da una pulsione interna che come una bomba liberava fuochi e colori nell’aria. E’ molto difficile trovare la stessa energia in altre espressioni artistiche.
       Perché l’arte, da Duchamp in poi, si è chiusa in se stessa alimentata da un circolo vizioso di gallerie e musei che ne hanno soffocato l’istinto e sbiadito i colori. Dopo sei anni di street art e dopo sedici edizioni dell’ Illegal Art Show ancora sento il bisogno di godere di questa energia. Di godere dell’effimera monumentalità di un’arte No future, di un’arte nata sui muri, fruita quando ancora la vernice è fresca e cola tra le insenature di una superficie ruvida che gli dona vita. Questa è la vera potenza della street art, la sua genuinità. Perché chi dipinge su un muro lo fa solo per il bisogno di fare arte, per il bisogno di conquistare spazi che gli vengono negati, per dare il suo contributo al prossimo. Per stupirlo, per irretirlo, per donargli una parte di sé. Un’opera di street art non può essere venduta. Non segue direttive esterne da chi la produce. E’ estranea a qualsiasi dinamica corrosiva e claustrofobica. Annulla qualsiasi intermediario e riporta l’Arte a parlare con il proprio pubblico. Perché la street art più che un movimento è un mezzo di espressione applicabile a qualsiasi declinazione artistica. Dalla pittura alla poesia.
       Dalla scultura alla fotografia. La street art scuote la dialettica artista - fruitore in un’interazione mobile e avvolgente. Sorprende e trasmuta. Crea significato. Inganna, affabula e adesca. Non è uno stile - è una necessità di comunicare. L’assalto poetico di ivan, i lemeri di Linda, le gigantografie di Abbominevole, le donne timide e sensuali di Nais e i puppets rock star di Tvboy, gli scarafaggi urbani di Pus e i pinguini metropolitani di Pao sono tutti metonimie di una grande corrente che scorre dentro la città generando fermento e caos sotto gli occhi di tutti. La vera essenza della street art è la collettività. Ogni artista è parte di un’opera collettiva che si frantuma tra le vie della polis creando significanti molteplici di un significato unico. L’iter classico di fruizione artistica viene spezzato, tagliato e riproposto come in un film di Tarantino dove le scene si mescolano e i personaggi si confondono in un post situazionismo nato dalle ceneri dello spettacolo moderno. Street art a Milano vuol dire passare dai murales di Bros e Sonda ai manifesti di Bo130 e Microbo, dalle rivisitazioni neoclassiche di Ozmo ai detournement neovintage di Dade per ritornare ancora, dopo pochi metri, alle installazioni di Bros.
       Nel pensare l’allestimento della mostra Street Art Sweet Art abbiamo cercato di mantenere vivo questo senso di decostruzione del percorso espositivo alternando installazioni e opere di artisti diversi in un mix di stili e forme che contemplasse tutte le divagazione di un’arte poliforme che spesso scivola in declinazioni non-artistiche. Non a caso parte della mostra è dedicata a tutti i prodotti (magliette, gadgets, toys, borse, poster…) derivanti dalla street art che, dal Pop Shop della coppia d’oro Haring/Warhol in poi, hanno caratterizzato questa espressione artistica.

La street art è dunque una decostruzione ingegnosa di un contesto popolare, anonimo e indefinito che diviene oggetto di un significato nuovo, artistico e contemporaneo.

Perché la street art trasforma, scolpisce e inventa situazioni nuove bucando la vertigine di un percorso artistico preconfezionato fatto di gallerie e televisioni mercato. Ed eccoci al cuore di questa mostra e alla difficile definizione di un’estetica nata dalla precarietà di un’arte site-specific che, come per altre espressioni artistiche, land art in testa, è difficilmente riproducibile in un contesto differente da quello originario. La street art è un’arte partorita per decontestualizzare un contesto che occupa e di cui diviene parte inscindibile. Definire, dentro i contorni estetici di un’istituzionalità altra, l’immaginario di un’arte nuova derivante da una comune matrice di stampo urbano, non è stata un’impresa facile. Quello che abbiamo voluto proporre in questa mostra è dunque l’esperienza immaginaria di un luogo che non c’è. Un Walhalla ideale di una street art slegata dalla street, per interrogarci su di un’estetica possibile e su uno sviluppo che, spero, non si allontanerà troppo dalle sue origini. “The truth is out there”.