Corrente #48: Ansia da algoritmo.

Un giorno, di qualche anno fa, ho fatto un piccolo esperimento con alcuni amici. Durante un pranzo, abbiamo messo i nostri smartphone sul tavolo (degli iPhone con Siri attivato), e abbiamo iniziato a parlare di uno specifico Brand citandone più volte il nome. Dopo qualche minuti abbiamo preso i nostri smartphone e abbiamo aperto LinkedIn e Instagram.

Risultato: LinkedIn mi ha mostrato il profilo di una persona che lavora all’interno dell’azienda di cui parliamo e su Instagram dopo qualche post ho visto una pubblicità del Brand oggetto dell’esperimento. Un caso? Può essere, ma può anche essere che il microfono dei nostri smartphone sia costantemente attivato (anche perché altrimenti come farebbe ad attivare l’assistente vocale chiamandolo per nome…) e mentre noi parliamo lui raccoglie dati.

Eccessivo? Magari sì. Quello che è sicuro è che attraverso le nostre attività online è possibile identificare le nostre connessioni personali e professionali, i nostri gusti, i nostri acquisti, le nostre preferenze in termini di libri, film, giochi o sport, le nostre abitudini e il nostro stato di salute. Tutte informazioni che ad oggi sono accessibili senza molte leggi che le tutelino, per il semplice motivo che siamo noi ad accettare le condizioni che ci vengono poste, molto spesso senza neanche aver consapevolezza di quello che stiamo concedendo.

Scendendo ancora di più nel dettaglio, nel quinto capitolo del suo saggio “The Age of Surveillance Capitalism” Shoshana Zuboff passa in rassegna alcune delle fonti da cui le Big Tech attingono per la raccolta di dati. Tra queste ci possono essere la frequenza con cui si carica la batteria del telefono, il numero di messaggi in entrata che si ricevono, se e quando si risponde alle telefonate, quanti contatti si hanno nella rubrica del telefono, come si compilano i moduli online, quanti chilometri si percorrono ogni giorno, il contenuto delle nostre e-mail, quali luoghi abbiamo visitato, cosa abbiamo detto, cosa abbiamo fatto, come ci sentiamo, con chi ci siamo sentiti e milioni di altri dati raccolti tanto dalle nostra attività online quanto da quelle offline.

Questi dati comportamentali possono poi essere utilizzati per produrre modelli predittivi per valutare la probabilità d’insolvenza o di rimborso del prestito, il nostro stile di vita, i nostri bisogni futuri oppure possono essere venduti sul mercato dei dati.

Nel momento in cui deleghiamo, come uomini, la fatica di scegliere o pensare a una macchina (che sia quale film guardare, o che prodotto comprare o, peggio ancora, quali informazioni leggere) stiamo lentamente perdendo una delle nostre capacità più distintive: il senso critico. Stiamo scegliendo di diventare sempre meno autonomi e sempre più automi.

Di fronte a questo scenario, non appena abbiamo consapevolezza della quantità di dati personali che ogni giorno condividiamo, è plausibile che possa nascere in noi un senso d’ansia, sempre più diffuso e chiamato “Algorithmic Anxiety”, dovuto alla sensazione di essere costantemente controllati, osservati e influenzati da algoritmi pensati per farci credere di volere quello che loro vogliono che noi vogliamo. Una sorta di vertigine che può affascinare e farci esclamare frasi come: “Incredibile era esattamente il prodotto che stavo cercando! Ma come ha fatto?” ma cui non possiamo abituarci, perché nel momento in cui deleghiamo, come uomini, la fatica di scegliere o pensare a una macchina (che sia quale film guardare, o che prodotto comprare o, peggio ancora, quali informazioni leggere) stiamo lentamente perdendo una delle nostre capacità più distintive: il senso critico. Stiamo scegliendo di diventare sempre meno autonomi e sempre più automi.