A proposito di “musica” qui sotto trovi 74 appunti o articoli su questo tema o su tematiche simili.
 

Il business della musica.

Uno dei mercati che trovo più interessante degli ultimi vent’anni è quello della musica. Dato per morto a seguito delle varie ondate digitali (da Napster allo Streaming) è stato invece in grado di re-inventarsi completamente e ora è in continuo aumento. Tanto da far rinascere un mercato, quello dei vinili, che si considerava estinto. iTunes, Spotify, i concerti live, X-Factors, la trap, i video su Yuotube, il Merchandising. La musica è il classico esempio di come le vie dei modelli di business siano infinite.




 

Morire con la musica ancora dentro.

“Many people die with their music still in them. Too often it is because they are always getting ready to live. Before they know it, time runs out.”
– Oliver Wendell Holmes Sr

«Molte persone muoiono con la loro musica ancora dentro. Troppo spesso è perché si preparano sempre a vivere. Prima che se ne accorgano, il tempo finisce.» Diceva lo scrittore americano Oliver Wendell Holmes Sr.

Vale per la musica. Vale per il talento, per le idee, per le passioni e per tutto quello che ci teniamo dentro e che invece vorremmo urlare fuori. Ma non lo facciamo. Non lo facciamo per paura o per vergogna o per poca fiducia in noi stessi. Continuiamo a rimandarlo fino a quando il tempo finisce.




 

Joe Strummer e l’importanza di valorizzare le proprie debolezze.

“Quando fa male, osserva. La vita sta cercando di insegnarti qualcosa.”
– Anita Krizzan

Quando si avvicinò per la prima volta al mondo della musica, Joe Strummer non aveva un talento particolare per lo strumento che suonava, la chitarra, tanto che deve il suo soprannome, “Strummer”, ovvero lo “strimpellatore”, proprio alla sua incapacità di suonare la chitarra se non con le sei corde tutte insieme. Molti musicisti avrebbero cercato di nascondere questa debolezza, oppure avrebbero mollato il colpo, Joe Strummer invece le fece diventare il proprio tratto distintivo.

Non cercò di adattare il suo modo di suonare al mondo della musica, ma adattò il mondo della musica al suo modo di suonare, inventando uno stile che rese unica tanto la sua musica quanto quella dei The Clash. Quando ti stai mettendo in proprio ti consiglio di seguire l’esempio di Joe Strummer e trasformare le tue debolezze nei tuoi punti di forza. Non vederle come qualcosa di negativo da nascondere, ma come qualcosa di positivo da valorizzare e trasformare in caratteristiche differenziali. Perché le tue debolezze sono ciò che ti rende unico.

C’è una parola brasiliana meravigliosa che ogni persona che si vuole mettere in proprio dovrebbe conoscere: “Gambiarra”. Un termine che potrebbe essere tradotto come la capacità di una persona di cambiare il destino trasformando le proprie debolezze in punti di forza e affrontare qualsiasi avversità. In quest’ottica, non avere qualcosa che altri hanno, come il talento per la musica nel caso di Strummer, è un’opportunità per pensare in modo innovativo e trovare soluzioni che altri non hanno trovato. Vedila così, sei obbligato a farlo, non hai altra scelta. E quando qualcuno è obbligato a fare qualcosa, alla fine trova sempre il modo di farlo.

Un esempio di debolezza trasformata in punto di forza.

Il mondo è pieno di persone che hanno avuto successo proprio grazie alle loro debolezze. Nel mondo dell’imprenditoria per esempio pensa a BlaBlaCar. Nel 2003, il suo fondatore, Frédéric Mazzella, non possedeva alcun mezzo di trasporto proprio né aveva fondi per poterli acquistare. Ma questa apparente debolezza gli ha permesso d’inventare un nuovo modo di soddisfare un bisogno di mercato reale e concreto (spostarsi per lunghi tratti senza avere un’auto di proprietà) realizzando un servizio che abbassa i costi per l’azienda, riduce i prezzi per il cliente e aggiunge nuovi vantaggi come l’esperienza di condividere il viaggio.




 

Ritorno al vinile.

Nel 2018 si sono venduti più vinili che cd. E le proiezioni sono solo in crescita. Nel giro di un paio di anni i vinili venduti potrebbe superare gli MP3. E non escludo che a breve il mercato si potrebbe dividere tra streaming e vinili. Ovvero la musica nella sua forma più tecnologica (streaming) e la musica nella sua forma più analogica (vinile).

Questa polarizzazione del mercato è un fenomeno molto interessante che riguarda anche molti altri settori, come quello dell’advertising dove i due media che stanno crescendo di più sono il digitale (l’advertising nella sua forma più tecnologica) e l’Out Of Home (ovvero l’advertising nella sua forma più analogica).




 

Awesome Mix

La prima scena del film i Guardiani della Galassia è ambientata nel 1988. A quei tempi il protagonista, Peter Quill, era ancora bambino quando viene rapito da un gruppo di pirati spaziali e l’unica cosa che riesce a portare con sé è il suo walkman con dentro una cassetta che sua madre gli aveva regalato poco prima di morire. Per ventisei anni, le poche canzoni contenute in quella cassetta sono l’unica musica che Peter ascolta. Le ascolta così tanto che diventano parte della sua vita. Oggi fa strano pensare di ascoltare solo una decina di canzoni. Grazie a strumenti come Spotify possiamo ascoltare tutta la musica che vogliamo dove e quando vogliamo. E questo è fantastico. Ma, nella mia mentalità perennemente nostalgica, ogni tanto sento la mancanza della musica ai tempi delle cassette. Oggi ascolto troppa musica – troppo spesso. Cambio di continuo saltando da una canzone all’altra. Non riesco a dare il tempo a una canzone di diventare mia. Di rimanere una parte indelebile della mia vita. Tutte le canzoni che hanno caratterizzato momenti della mia vita, sono diventati tali perché le ho ascoltate centinaia di volte. Anche solo per il fatto che non avevo altre canzoni da ascoltare. Perché non basta avere qualcosa ma bisogna anche volerlo avere. Bisogna voler ascoltare proprio quella canzone in mezzo a un milione di canzoni per innamorarsene. E per fare questo serve tempo.




 

Disuguaglianza musicale.

Come ci ricorda l’economista Donald Thompson nel suo Squalo da 12 milioni di dollari, ci sono circa 40.000 artisti residenti a Londra e altri 40.000 a New York; di questi, 75 hanno redditi a 7 cifre, 300 a sei cifre e 5.000 sono rappresentati da qualcuno ma non riescono a vivere della propria arte mentre tutti gli altri non hanno mai venduto neanche un’opera in galleria.

E questo è il mondo dell’arte. Come dimostra questo grafico, quello della musica sembra ancora più elitario. Degli 8 milioni di creator e musicisti presenti su Spotify (e che contribuiscono a creare valore per la piattaforma) solo il 2% guadagna da Spotify più di 1.000 dollari all’anno. E solo lo 0,5% ne guadagna più di 10.000.

La situazione diventa ancora più esclusiva e diseguale se pensiamo che nell’arte almeno il mercato è in mano a diversi galleristi (comunque pochi ma almeno più di uno). Con Spotify il mercato si accentra verso un’unica azienda. Un po’ come se tutti gli artisti dovessero passare da un solo gallerista.




 

Born To Run.

Una storia, presa dal mio primo libro “Fai Fiorire il Cielo“, cui penso quando non mi sento pronto per lanciare un nuovo progetto:

Il 22 maggio del 1974 il critico musicale Jon Landau ha 27 anni. Si sente vecchio. Ascolta i suoi dischi e pensa a quanto il suo mondo fosse diverso dieci anni prima. Studiava alla Brandeis University, nel Massachusetts, e passava le giornate a suonare il banjo e la chitarra. Scrive per la rivista Rolling Stone fin dalla sua nascita nel 1967 e negli anni ha recensito molti grandi del Rock. Spesso criticandoli. Da Eric Clapton ai Rolling Stones, fino a Bob Dylan. Nel 1974 è alla ricerca di una musica che possa reggere il confronto con i grandi del passato. Il 9 maggio del 1974 partecipa a un concerto all’Harvard Square Theatre di Boston. Due settimane dopo, sulla rivista The Real Paper scrive «Dopo le sue due ore di concerto mi sono chiesto: può esistere davvero qualcuno così bravo, qualcuno che mi parli in modo tanto significativo, qualcuno che suoni Rock con tale energia e in modo così glorioso? E, con i polpastrelli delle dite anestetizzati dopo il tanto tambureggiare sulla poltrona per battere il tempo, la mia risposta è stata: sì!. Lui è capace di tutto: è punk rocker e poeta di strada, leader di una band da bar e ballerino classico, attore e pagliaccio, chitarrista, cantante e compositore squisito. Guida la sua band come se fosse la cosa che ha fatto da quando è nato. Oggi, non riesco a pensare a nessun altro bianco che sappia fare così tante cose così bene». John Landau continua a scrivere e chiude con una delle frasi più famose della storia del Rock «Stasera il grande Rock del passato mi è sfrecciato davanti agli occhi. Ma ho visto di più. Stasera ho visto il futuro del Rock ‘n’ roll: il suo nome è Bruce Springsteen». Nel gennaio del 1974 Bruce Springsteen aveva cominciato a lavorare al suo terzo album. I due lavori precedenti Greetings from Asbury Park, N.J. e The Wild, the Innocent and the E Street Shuffle, entrambi del 1973, non avevano ancora avuto successo e Bruce Springsteen sapeva che il terzo album sarebbe stata la sua ultima occasione di avere, da parte della sua etichetta, un budget così grosso per la produzione. Passa quattordici mesi chiuso nello studio di registrazione Record Plant a New York. Springsteen è pieno di dubbi e frustrazioni. Non riesce a trasmettere quello che ha in testa alla sua band. La musica non lo convince e dedica sei mesi alla track list dell’album. Continua a rimandare l’uscita perché non si sente ancora sicuro delle registrazioni in studio. Propone alla sua etichetta di registrare dal vivo. Riscrive musica e canzoni. La sezione fiati non riesce a stare dietro al sax di Clarence Clemons. La situazione sembra essere in stallo. Jon Landau entra ufficialmente nella produzione dell’album e viene assunto come co-produttore insieme a Mike Appel. L’album sembra essere pronto, ma Springsteen rimanda ancora la data. Landau lo chiama. «Il disco non ti deve piacere. Pensi che Chuck Berry non si sieda ad ascoltarsi Maybelline? E pensi che non abbia voglia di cambiare qualcosa? Fidati. È ora di pubblicare il disco.»




 

Prepararsi ad un Natale anomalo.

Qualche settimana fa su Internazionale, ho visto una fotografia che ha attirato la mia attenzione. La fotografia ritrae un gruppo di fedeli induisti mentre celebrano la Rakher Upobash, una festa dedicata al santo indù Lokenath. La scena è del 2020 ma potrebbe essere di trecento anni fa. Stessi riti, stessi abiti, stesso luogo. Tutto identico, ad eccezione di due elementi: la mascherina che tutti i fedeli indossano e lo smartphone che un ragazzo tiene in mano mentre è intento a farsi un selfie.

Penso che la mascherina e lo smartphone saranno gli oggetti più iconici dei primi vent’anni del nuovo secolo. Il che è interessante, quasi paradossale, perché sono due oggetti inversi e complementari:  Uno, lo smartphone, è nato per avvicinarci quando siamo lontani, l’altro, la mascherina, per distanziarci quando siamo vicini.

Ci stiamo preparando ad affrontare il Natale più straordinario (nel senso di fuori dall’ordinario) degli ultimi settantacinque anni. Forse tra i più caldi, da un punto di vista climatico, e sicuramente il più freddo da un punto di vista sociale. Di fronte all’anomalia di questo Natale, ecco qualche consiglio per affrontare le prossime settimane:

01. L’atmosfera conta.
Facciamo l’albero di Natale (anche se non lo vedrà nessuno). Decoriamo la casa (anche se non inviteremo nessuno). Ascoltiamo musica natalizia (anche se la sentiremo solo noi). L’atmosfera conta e ci aiuta a rendere meno anomalo questo Natale. A proposito di musica, qui trovi la mia playlist natalizia di quest’anno.

02. Le piccole gratificazioni contano.
Come scrisse Iris Murdoch: «Uno dei segreti di una vita felice sono le piccole gratificazioni continue, e se alcune di queste sono poco costose e facili da ottenere tanto meglio». Vero. Soprattutto oggi. La pandemia ci sta lasciando molti vuoti, in primis relazionali e sociali. Non possiamo fare finta di nulla. Ci serve qualcosa che ci permetta di compensare questi vuoti e ci aiuti a superare l’inverno. Piccole gratificazioni quotidiane possono aiutarci. Concederci dei lussi che prima non ci concedevamo. Concederci del tempo per noi. Per fare le cose che ci fa piacere fare. Se tra queste c’è leggere, qui trovi un po’ di libri che ho letto e che ti consiglio. Se invece ti piace vedere film o serie, qui trovi un po’ di film o serie che ho visto e che ti consiglio.

03. I regali contano.
Uno dei pochi vantaggi di questo Natale è che non siamo obbligati a fare e ricevere una marea di regali, il più delle volte inutili, giusto perché l’occasione lo richiede (il pensierino per il nipote del nipote in occasione della cena a casa dello zio dello zio, per intenderci…). Tuttavia fare i regali è importante per tenere alto l’umore natalizio. Il problema è che quest’anno non ci potremo vedere e quindi non potremo scambiarci i regali a mano. Però possiamo farci regali digitali da inviare via mail o messaggio (abbonamenti a riviste o musei, card per acquisti o esperienze, e-book, musica, film…). Se invece vuoi organizzare un Secret Santa con amici lontani, questo sito ti permette di farlo.

04. La Privacy conta.
Saremo lontani e quindi ci sentiremo più spesso. Faremo telefonate e video-telefonate per farci gli auguri e, immagino, ci manderemo e pubblicheremo molte foto e video. Ecco, su questo ultimo punto se possiamo evitare, evitiamo di pubblicare le nostre foto private e, soprattutto quelle dei nostri figli, sui Social o evitiamo di mandarle via WhatsApp. Perché anche a Natale la privacy conta. Qui trovi una lista delle aziende che raccolgono più dati su di noi, e Facebook e Instagram sono in testa. Mentre qui trovi una guida agli acquisti a prova di privacy.




 

James Brown e l’importanza di credere in se stessi.

“È molto più importante della stima altrui quella che tu hai in te stesso.”
– Seneca

James Brown è stata una delle più importanti ed influenti figure della musica del XX secolo. Possiamo dire che c’è stata una musica pre-Brown e una musica post-Brown. Nonostante abbia pubblicato 63 album in studio, il meglio di sé lo dava sul palco, grazie soprattutto alla sua presenza scenica esplosiva. Prima di ogni concerto, Brown faceva un piccolo rituale: si guardava allo specchio e diceva a se stesso: «Do I look like the kind of man people would pay to see?», “sembro il tipo di uomo per cui la gente è disposta a pagare per vederlo esibirsi davanti a loro?”.

Ed evidentemente la sua risposta era sì, visto il successo di ogni sua performance. Può sembrare un fatto insignificante, ma non lo è, perché qualsiasi sia il lavoro che fai, la prima persona che devi convincere della tua validità sei te stesso. Quindi prima di iniziare una riunione o proporre il tuo progetto a dei potenziali investitori, convinciti di essere la persona giusta per fare il tuo lavoro.




 

Sixto Rodriguez.

Nel 1967 esce il primo singolo del cantautore statunitense di origini messicane Sixto Rodriguez, I’ll slip away. Io svanirò. Tre anni più tardi Rodriguez pubblica il primo album, Cold fact, e nel 1971 il secondo, Coming from reality. Le sue canzoni parlano delle condizioni della classe operaia del suo Paese e, soprattutto, della sua città, Detroit. Sixto Rodriguez sembra il cantante giusto al momento giusto. Uno stile folk-rock con delle ispirazioni psichedeliche e delle canzoni popolari che parlano di tematiche vicine alla gente: il taglio della sua musica può ricordare quello di Bob Dylan, di Donovan, di Leonard Cohen o di Neil Young. Artisti che alla fine degli anni sessanta erano in vetta alle classifiche americane, inglesi e canadesi.

Ciononostante, i suoi album vendono solo sei copie. Sixto Rodriguez abbandona la carriera di musicista per andare a lavorare come muratore e l’etichetta che lo aveva pubblicato, la Sussex Records, fallisce nel 1975. Nel 1977 l’etichetta australiana Blue Goose Music acquista i diritti di alcuni suoi brani e pubblica la raccolta At His Best. Grazie a questo album, Rodriguez nel 1979 è in Australia per un breve tour. Parafrasando A Most Disgusting Song, la seconda traccia dell’album Coming from reality, Rodriguez suona ovunque, nei locali da «checche» in quelli da prostitute, ai funerali dei motociclisti, nei teatri, nelle sale da concerto e nei centri di riabilitazione. Ritrovando sempre le stesse persone. Il magnaccia, il barista, Jimmy «Bad Luck» Butts, il vecchio playboy Ralph, lo scolaro barbuto e l’attivista con l’anima comprata al supermercato. Tuttavia la sua carriera artistica non decolla e nel 1981 torna a Detroit. Si laurea in Filosofia alla Wayne State University e nel 1989 si candida alle comunali della sua città per combattere un sistema dove la mafia procura la droga, il governo fa spallucce e la guardia nazionale fornisce i proiettili.

A metà degli anni novanta Stephen «Sugar» Segerman, un ragazzo appassionato di musica psichedelica cresciuto a Emmarentia, un quartiere di Johannesburg, decide, insieme al giornalista musicale Craig Bartholomew Strydom, di mettersi alla ricerca del musicista statunitense che, dopo aver ispirato un’intera generazione con le sue canzoni negli anni settanta, era misteriosamente scomparso. C’era chi diceva fosse morto suicida. Altri sostenevano che si fosse ritirato dalle scene. Altri che aveva aderito a un gruppo terroristico di sinistra. Altri che fosse morto di overdose. Altri, invece, che fosse finito in prigione.

Durante gli anni dell’apartheid, quel musicista era considerato una leggenda. La sua musica parlava di libertà, droghe e lotte di classe e la sua scomparsa era un mistero che non poteva rimanere irrisolto. Segerman e Strydom partono alla volta degli Stati Uniti e arrivano a Detroit. Chiedono del musicista, ma nessuno lo conosce. Tutti conoscono un muratore, laureato in filosofia che, , ogni tanto gira con la chitarra, ma sicuramente non è la Rock-Star di cui parlano i ragazzi sudafricani. Finalmente Segerman e Strydom trovano il suo indirizzo. Stando al racconto del giornalista, scrittore e cantautore sudafricano Rian Malan, il cantante viveva in povertà in un quartiere degradato di Detroit. I ragazzi suonano alla porta. In quel momento la storia cambia.

La leggenda di Sixto Rodriguez musicista incontra Sixto Rodriguez muratore di Detroit. Nel 1998 Rodriguez suona in Sud Africa, al Bellville Velodrome di Città del Capo, di fronte a migliaia di persone. Poi è in tour in Nuova Zelanda dove registra il tutto esaurito. Viene invitato a Glastonbury, in Inghilterra, e poi a Coachella, negli Stati Uniti. Secondo Segerman le ristampe degli album Cold fact e Coming from reality vendono circa 200.000 copie in un anno ed entrano nella classifica dei dieci cd più venduti su Amazon. Nel 2012 esce Searching for Sugar Man, un documentario sulla sua storia scritto e diretto da Malik Bendjelloul. Il film vince l’Oscar come miglior documentario e incassa milioni di dollari.




 

Sergej Ėjzenštejn e l’importanza di collegare frammenti indipendenti.

Nel saggio Montaž attrakcio-nov (montaggio delle attrazioni), pubblicato nel 1923, Sergej Ėjzenštejn teorizza la totale indipendenza dei singoli elementi della forma teatrale, dal mormorio di Ostuzev al colore della calzamaglia della primadonna, uniti insieme da un montaggio che riorganizzasse la loro eterogeneità in funzione di un potente e unitario coinvolgimento, emozionale e ideale, dello spettatore verso la creazione di qualcosa di completamente diverso.

Teoria che Ėjzenštejn ha poi messo in pratica fin dal suo primo lungo-metraggio, Sciopero!, del 1925 dove immagini tra loro distanti vengono unite attraverso la creazione di un nuovo senso narrativo.

Per stimolare la creatività e allenare in quoziente di innovazione, il nostro pensiero dovrebbe avvicinarsi all’idea benjaminiana di accostamento di eterogenei. Approcciare quello che ci circonda mischiando tra loro oggetti diversi come, appunto, in un montaggio costruttivista alla Sergej Ėjzenštejn, dove l’uniformità nasce dalla collisione di frammenti indipendenti.

Per comprendere meglio questo tema, spostiamoci dal campo del cinema a quello della musica e, in particolare, pensiamo alla genesi di uno degli stili più innovativi, il cool jazz. Di per sé il cool jazz non inventa un nuovo strumento o un nuovo canale di diffusione della musica o una nuova tecnica, la sua innovazione deriva dalla genialità di Miles Davis e di Gill Evans che per la prima volta nella storia hanno messo insieme nove strumenti già esistenti ma insoliti per il jazz (tromba, trombone, corno francese, tuba, sax contralto, sax baritono, pianoforte, batteria e contrabbasso), dando vita a un nuovo genere musicale.

Ovviamente questo vale anche al contrario. Pensiamo a tutte le volte che siamo di fronte a opportunità inespresse che non siamo però in grado di connettere tra di loro per creare idee straordinarie. Come un giorno disse tristemente un presentatore cinese: «Abbiamo il Kung Fu e abbiamo i panda, ma non siamo stati in grado di creare un film come Kung Fu Panda». In Italia abbiamo i migliori abiti sartoriali al mondo (suit) e i fornitori di maggior qualità (supply), ma non siamo stati in grado di creare SuitSupply.




 

Perfezionismo vs Innovazione.

Il 29 Agosto 1966 i Beatles chiudono il loro tour americano a Candlestick Park, San Francisco. Sebbene fossero la band più redditizia della storia della musica e a quel concerto ci fossero 40.000 spettatori, l’organizzazione del concerto era stata così “garibaldina” e spartana che sul palco ogni volta che Paul McCartney si avvicinava troppo al microfono prendeva una piccola scossa e l’impianto audio era così amatoriale che dal fondo la voce di John Lennon non si sentiva.

È qualcosa cui penso spesso quando sto per lanciare un nuovo progetto.

I Beatles hanno fatto la storia della musica non perché i loro concerti erano perfetti ma perché erano innovativi, e proponevano qualcosa che nessuno aveva fatto prima.

Molto spesso infatti innovazione e perfezione, o meglio perfezionismo, non sono compatibili.

L’obiettivo quando si lavora a qualcosa di nuovo e innovativo non è essere fin da subito perfetti, ma perfezionarsi ogni giorno, strada facendo. L’obiettivo non è essere fin da subito i migliori, ma migliorarsi ogni giorni, errore dopo errore.

Del resto, come scrive Carlo Rovelli nel suo ultimo libro: «Non si diventa Einstein se non si ha il coraggio di pubblicare cose sbagliate».

L’obiettivo quando si lavora a qualcosa di nuovo e innovativo non è essere fin da subito perfetti, ma perfezionarsi ogni giorno, strada facendo. L’obiettivo non è essere fin da subito i migliori, ma migliorarsi ogni giorni, errore dopo errore.

Allo stesso modo non si può costruire nulla di innovativo se non si ha il coraggio di fare errori, o se non si accetta il fatto che all’inizio non saremo mai perfetti come vorremmo essere.




 

Unleash the Charge. Electrified Adventure.

 

“Unleash the Charge. Electrified Adventure.” Questo è lo slogan che si è inventato ChatGPT quando gli ho chiesto di generare un copy per una finta pubblicità di un’auto, in questo caso una Tesla Model 3, ambientata in un deserto della California.

E non si è fermato allo slogan. Poi ha generato il testo per la pubblicità. E, già che c’eravamo, con Federico Favot, abbiamo generato anche le immagini, il video, il voice over e la musica.

Il risultato è quello che vedi sopra: un commercial di 45 secondi.

  • Concept e testo: ChatGPT.
  • Immagini: Midjourney (con la nuova, e incredibile, funzione /tune).
  • Video: Runway.
  • Voice Over: ElevenLabs.
  • Musica: Stableaudio.

Tempo totale: meno di due ore.
Costo totale: (forse) qualche dollaro.

Tutto realizzato solo scrivendo prompt. Text-To-Text, Text-To-Image, Text-To-Video, Text-To-Audio.

Ovvio, le immagini sono ancora grezze, ma è una questione di uno o due anni.

Quanto sarebbe costato fare uno spot simile “dal vero”? Regista, location, attori, trasferte, Copywriter, Art Director, agenzie, troupe…

Stiamo parlando di decine, se non centinaia, di migliaia di euro e mesi di produzione contro pochi dollari di investimento e due ore di tempo.

La mia speranza è che questa rivoluzione tecnologica spinga creativi e agenzie a lavorare molto di più sulla creatività e sull’originalità delle idee alla base delle prossime campagne di comunicazione.

Questo sarà il vero vantaggio competitivo: la creatività umana, non l’esecuzione tecnica.

La mia speranza è che questa rivoluzione tecnologica spinga creativi e agenzie a lavorare molto di più sulla creatività e sull’originalità delle idee alla base delle prossime campagne di comunicazione.

Nell’automotive è da settant’anni che il format comunicativo alla base delle pubblicità è sempre lo stesso. Nel 1950, la Buick Motor Company, vendeva i suoi modelli usando lo slogan: “It makes you feel like the man you are” (Vi dà il senso di essere l’uomo che sei). E da allora poco è cambiato.

In termini di messaggio siamo ancora lì: grazie a questa macchina potrai diventare l’uomo che sei (o che vorresti essere).

Forse è giunto il momento di pensare a qualcosa di più originale.




 

23 cose che mi aspetto dall’Intelligenza Artificiale Generativa per il 2023. (Più 23 da Gpt-3).


Puoi leggere questo articolo anche su Technicismi.
Qui la mia newsletter Corrente.


1- Uscirà GPT4 e, se il passaggio da GPT3 a GPT4 sarà di pari portata rispetto a quello da GPT2 a GPT3, sarà una rivoluzione enorme.

2- Microsoft, che nel 2019 aveva investito 1 miliardo in OpenAi e possiede GitHub e VALL-E, sarà uno dei protagonisti del settore I.A.G. oltre al fatto che GPT sarà in Word, Bing, Outlook e simili.

3- Il “Prompt Designer”, ovvero un professionista in grado di scrivere prompt per generare testi e immagini, sarà un lavoro sempre più richiesto.

4- OpenAI supererà i 30 miliardi di valutazione e passerà da qualche decina di milioni di fatturato a qualche miliardo.

5- L’I.A.G. sarà sempre più facile da usare, ma anche più costosa e regolamentata.

6- Grazie a tecnologie come VALL-E l’I.A.G. sarà in grado di parlare come un umano.

7- Si inasprirà la sfida (Microsoft + OpenAI) vs (Google + DeepMind) per il dominio del mercato dell’I.A.G.

8- I processi di fine-tuning per allenare l’I.A.G. saranno più immediati.

9- Gli investimenti in Startup che utilizzano o sono basate su I.A.G. cresceranno ulteriormente.

10- L’I.A.G. sarà un elemento chiave di molti, se non tutti, i software.

11- Nasceranno due tipologie di creatività: una “Made By Human”, più di qualità e una “Made by Robot”, più di quantità.

12- Smetteremo di citare l’I.A.G., la useremo e basta.

13- Alcuni lavori creativi (fotografo, illustratore e copywriter…) dovranno re-inventare la propria professione per rimanere dentro il mercato.

14- L’I.A.G. “democratizzerà” molti servizi un tempo meno accessibili. Tutti potranno avere un coach, o uno psicologo o un trainer o un assistente personale disponibile 24/7, a patto che sia virtuale.

15- Il DeepFake sarà sempre più diffuso e ci metterà davanti alla necessità di domandarci sempre se quello che stiamo vedendo sia reale.

16- L’I.A.G. dovrà guadagnarsi credibilità e fiducia, migliorando la trasparenza dei suoi processi e la veridicità dei suoi output.

17- L’Etica avrà un peso sempre più rilevante nell’I.A.G.

18- Più I.A.G. ci sarà più energia pulita servirà per alimentarla e allenarla.

19- Più persone useranno l’I.A.G. più questa dovrà essere sicura per evitare attacchi informatici o manipolazioni delle informazioni.

20- Se il 2021 è stato l’anno della generazione dei testi, il 2022 quello delle immagini, il 2023 sarà quello della generazione dei video.

21- L’Augmented Working (lavoro di umani + I.A.G. insieme) continuerà a crescere, soprattutto per i lavori creativi.

22- Grazie all’I.A.G. potremo creare esperienze e servizi sempre più personalizzati sul singolo utente, soprattutto nel Gaming, nell’Editoria e nell’Entertainment.

23- In sintesi: L’I.A.G. rivoluzionerà le nostre vite personali e professionali. E questo è solo l’inizio.

 

In sintesi: L’I.A.G. rivoluzionerà le nostre vite personali e professionali. E questo è solo l’inizio.

 

Ed ora… 23 cose che GPT si aspetta dall’Intelligenza Artificiale Generativa per il 2023:

1. Gli assistenti AI diventeranno sempre più competenti nel generare la risposta giusta nelle conversazioni: Gli assistenti AI saranno in grado di generare conversazioni naturali e contestualmente pertinenti, con l’aiuto di strumenti di elaborazione del linguaggio naturale.

2. Le aziende utilizzeranno l’IA generativa per progettare più velocemente i prodotti: Gli algoritmi di IA generativa consentiranno alle aziende di progettare rapidamente nuovi prodotti partendo da specifiche e idee, riducendo drasticamente i tempi di sviluppo dei prodotti.

3. L’IA generativa consentirà un marketing più efficiente sui motori di ricerca: L’IA generativa sarà utilizzata per creare campagne di marketing sui motori di ricerca più efficienti, ottimizzando il targeting degli annunci pubblicitari ai potenziali clienti.

4. Elaborazione del linguaggio naturale per il servizio clienti: L’intelligenza artificiale generativa consentirà ai rappresentanti del servizio clienti di generare rapidamente risposte alle richieste dei clienti e alle domande più comuni, migliorando notevolmente l’assistenza ai clienti.

5. Traduzione da immagine a immagine: L’intelligenza artificiale generativa sarà utilizzata per applicare effetti visivi e trasformazioni alle immagini, creando immagini di alta qualità da semplici schizzi o foto.

6. L’IA generativa faciliterà la produzione musicale: Gli algoritmi di IA generativa consentiranno ai produttori musicali di creare rapidamente nuovi brani musicali con l’aiuto di reti neurali artificiali.

7. L’IA generativa guiderà l’innovazione nell’assistenza sanitaria: L’IA generativa sarà utilizzata per creare nuovi farmaci e trattamenti, migliorando notevolmente i risultati sanitari.

8. L’IA generativa perfezionerà l’elaborazione del linguaggio naturale: Gli algoritmi di IA generativa saranno utilizzati per aumentare le capacità di elaborazione del linguaggio naturale, rendendo possibile la generazione di risposte più accurate e sensibili al contesto.

9. L’IA generativa cambierà il modo in cui interagiamo con il mondo: L’IA generativa ci permetterà di interagire con l’ambiente circostante in modi nuovi, creando esperienze inedite nei giochi, nell’intrattenimento e nella vita quotidiana.

10. L’IA generativa creerà nuovi tipi di lavoro: Gli algoritmi di IA generativa creeranno nuovi tipi di lavoro, come sviluppatori di algoritmi, amministratori di sistemi di IA e assistenti di IA.

11. Arte generata dall’IA: Gli algoritmi di IA generativa saranno utilizzati per creare opere d’arte originali, superando i limiti di ciò che può essere prodotto solo con gli algoritmi.

12. Traduzione automatica: Gli algoritmi di IA generativa tradurranno rapidamente il testo da una lingua all’altra, rendendo la comunicazione più semplice ed efficiente.

13. Riconoscimento e prevenzione dei furti: L’intelligenza artificiale generativa sarà utilizzata per riconoscere e prevenire i tentativi di furto, rendendo più facile cogliere i criminali sul fatto.

14. Video generati dall’intelligenza artificiale: L’intelligenza artificiale generativa consentirà di creare rapidamente video generati dall’intelligenza artificiale, che potranno essere utilizzati per scopi di marketing e di intrattenimento.

15. Miglioramento dei sistemi di raccomandazione: Gli algoritmi di IA generativa saranno utilizzati per creare sistemi di raccomandazione migliori, fornendo agli utenti suggerimenti personalizzati su prodotti e servizi.

16. L’IA generativa creerà nuovi tipi di intrattenimento: Gli algoritmi di IA generativa saranno utilizzati per creare esperienze di intrattenimento uniche e coinvolgenti, come la realtà virtuale e i giochi di realtà aumentata.

17. Narrazione generata dall’IA: L’IA generativa ci permetterà di generare storie utilizzando l’IA, creando esperienze uniche e personalizzate in base alle preferenze dell’utente.

18. Musica potenziata dall’intelligenza artificiale: Gli algoritmi di IA generativa saranno utilizzati per creare musica potenziata dall’IA, rendendo più facile la creazione di composizioni complesse e stratificate con il minimo sforzo.

19. Progettazione automatizzata dei giochi: Gli algoritmi di intelligenza artificiale generativa consentiranno ai progettisti di giochi di creare rapidamente nuovi giochi utilizzando l’intelligenza artificiale, riducendo drasticamente il tempo e l’impegno necessari per sviluppare un gioco.

20. Diagnosi medica assistita dall’IA: L’intelligenza artificiale generativa sarà utilizzata per diagnosticare in modo rapido e accurato le condizioni mediche, rendendo più facile individuare le malattie nelle loro fasi iniziali.

21. L’IA generativa faciliterà la creazione automatizzata di documenti legali: Gli algoritmi di IA generativa saranno utilizzati per creare documenti legali, come contratti e accordi, facendo risparmiare tempo e denaro alle aziende.

22. Segmentazione automatica dei clienti: Gli algoritmi di IA generativa saranno utilizzati per segmentare accuratamente i clienti, consentendo alle aziende di adattare i loro prodotti e servizi a diversi gruppi di clienti.

23. Ottimizzazione automatizzata dei processi: Gli algoritmi di IA generativa saranno utilizzati per ottimizzare i processi delle aziende, come la gestione della catena di approvvigionamento e il controllo delle scorte, migliorando l’efficienza e riducendo i costi.




 

Alexa immagina per me.

Un paio di giorni fa, Amazon ha lanciato una nuova funzione che consente di creare e raccontare storie stravaganti utilizzando l’Echo Show, al momento di andare a letto o in qualsiasi altro momento. Il servizio si chiama “Create with Alexa” e, come si legge nel comunicato stampa, utilizza l’intelligenza artificiale (AI) conversazionale e generativa per consentire ai giovani narratori di costruire storie uniche con un arco narrativo, una grafica colorata e una musica di sottofondo divertente e complementare. Una volta create le storie prendono vita sullo schermo dei dispositivi Echo Show.

I bambini possono pronunciare la frase “Alexa, crea una storia”, seguire alcuni suggerimenti e Alexa genererà una narrazione unica e originale basata sulle preferenze del bambino. Per ogni scena, l’intelligenza artificiale compone anche un’illustrazione, una musica di sottofondo e degli effetti sonori. Le scelte del bambino in merito a personaggi, ambientazione e altre variabili dettano la direzione della storia, e non ci sono mai due storie uguali.

“Create with Alexa” è l’ultima dei tanti servizi creativi basati su AI Generativa che permettono in pochi secondi di dare forma alla nostra immaginazione. Pensiamo qualcosa e la vediamo immediatamente crearsi davanti a noi.

Quando tutto quello che immaginiamo si crea davanti a noi all’istante che senso ha immaginarlo? L’immaginazione diventa così una commodity, qualcosa che possiamo avere in qualsiasi momento.

Possiamo dire o scrivere: Disegna questo, o scrivi questo, o racconta questo, o cerca questo, o anima questo e “questo”, qualsiasi cosa sia, prende forma immediatamente e senza alcuno sforzo. E proprio qui sta il rischio a mio avviso più grande di queste tecnologia: la perdita della fatica di immaginare.

Quando tutto quello che immaginiamo si crea davanti a noi all’istante che senso ha immaginarlo? L’immaginazione diventa così una commodity, qualcosa che possiamo avere in qualsiasi momento. Quando invece la chiave dell’immaginazione e dello stupore sta proprio nella fatica della ricerca, nell’investire tempo e fatica per dare forma alla nostra immaginazione.




 

La svolta di Ghali.

Ogni tanto mi perdo su Internet. È il mio modo di fare ricerca. Inizio a cliccare su un link dietro l’altro per vedere dove vado a finire. Qualche giorno fa questa ricerca disordinata mi ha portato a vedere un video su YouTube che racconta l’evoluzione artistica del rapper Ghali dal 2009 al 2017. La cosa che più mi ha colpito è che, come spesso accade nella musica, all’inizio Ghali imitava i molti rapper del tempo. Stesse canzoni, stesso immaginario e stesse parole. E il risultato era mediocre (uno dei suoi primi EP è stato addirittura considerato dalla critica come uno dei punti più bassi dell’hip hop italiano). La svolta nella sua carriera è avvenuta solo quando ha deciso di lavorare su se stesso, su un proprio stile e, soprattutto, su una propria personalità. Quando ha abbandonato l’immaginario del rapper di periferia che si auto celebra con rime scontate, per dare spazio alle proprie origini e alle proprie sonorità. Quando ha smesso di seguire quello che facevano gli altri per essere uno dei tanti rapper in circolazione, e ha avuto il coraggio di provare a diventare qualcosa che solo lui poteva essere.




 

Paul, Art e l’importanza di imitare prima e innovare poi.

Paul Simon e Art Garfunkel cominciarono la loro carriera imitando i grandi cantanti pop degli anni Cinquanta, ma poi trovarono il loro stile e diventarono Simon&Garfunkel. John Ray Cash iniziò imitando i grandi della musica country e gospel degli anni Quaranta, ma poi trovò il suo stile e divenne Johnny Cash. Ray Charles Robinson iniziò imitando i grandi della musica blues degli anni Trenta, ma poi trovò il suo stile e divenne Ray Charles.

Imitare di per sé non è sbagliato. Anzi ci aiuta a crescere. Fin da bambini tutti noi apprendiamo per imitazione. E così funziona anche nel mondo del lavoro. Molti imprenditori hanno lanciato le loro prime imprese copiando o avendo come riferimento qualcun altro. Ma solo chi a un certo punto ha smesso di imitare e ha cominciato ad innovare ha avuto veramente successo.

All’interno di un mercato competitivo, quando le aziende tendono a copiarsi l’un l’altra, si finisce con l’andare tutti nella stessa direzione. E questo spesso vuol dire che, metaforicamente parlando, se un’azienda si butta dal burrone, tutti le vanno dietro. Così come se c’è un’opportunità che nessuno sta cogliendo, nessuno la coglierà. Ed è così che nascono (ed esplodono) le bolle speculative.




 

Film postumi.

“Sunset (Bird of Prey)” è una canzone del 2000 di Fatboy Slim con Jim Morrison che, come è noto, è morto nel 1971. “Free as a Bird” è una canzone del 1995 dei Beatles con la voce di John Lennon che, come è noto, è morto nel 1980. Nella musica ci sono molte canzoni postume, realizzate con voci registrate o campionate. Oggi, grazie a tecnologie come il Deepfaking, mi domando se potranno esserci anche film postumi. In passato qualche caso c’è stato, come “Il corvo – The Crow”, ma in futuro potranno esserci film interamente girati con attori deceduti anni prima. Sembra irreale ma guardando questi video di un finto Tom Cruise non sembra uno scenario così irrealizzabile.




 

Consumatori, prodotti o produttori.

Questa è un’epoca incredibile per essere consumatori. Possiamo avere tutto quello che vogliamo e spesso possiamo averlo gratis. Le aziende fanno di tutto per averci. Ci regalano musica, film, soldi (con il cashback), sconti, software, piattaforme, esperienze, prodotti e consegne gratis. Fantastico. Se dieci anni fa mi avessero detto che con il prezzo di un cd potevo avere tutta la musica che volevo per un mese non ci avrei creduto. Invece oggi funziona così. Tuttavia non riesco a togliermi dalla testa una frase che avevo letto diversi anni fa: “Quando qualcosa è gratis, il prodotto sei tu”.

Nessuno ci regala nulla. Soprattuto aziende che guadagnano milioni di dollari e hanno valorizzazioni di mercato da miliardi di dollari. Quindi se ci stanno regalando qualcosa è perché noi stiamo regalando qualcosa a loro. E ci sta. Basta esserne consapevoli.

Essere consapevoli che non siamo consumatori ma prodotti, o ancora meglio, produttori. Produttori di dati che vengono poi rivenduti. Produttori di informazioni che vengono poi usate per il machine learning, produttori di feedback che vengono poi usati per testare prodotti, produttori di contenuti che vengono usati per fare pubblicità. È un normale scambio. Al pari del do ut des dei Romani. Ricevo qualcosa in cambio di qualcos’altro.




 

Glenn Gould e l’importanza di rinunciare a tutto (o quasi) per investire nel proprio progetto.

Glenn Gould è stato uno dei più grandi pianisti di tutti i tempi. Ha iniziato ad esibirsi a 13 anni. A 18 incise il suo primo album. A 25 anni, in piena Guerra Fredda, era in tour in Russia e a 28 vien diretto da Leonard Bernstein. A 30 anni è una leggenda della musica, vendette milioni di album e vinse 4 Grammys. Tuttavia, a 31 anni smette di esibirsi. Perché Glenn Gould non era solo uno dei migliori pianisti di sempre, ma anche uno dei più eccentrici. Era paranoico, ipocondriaco, suonava solo sulla sedia pieghevole che gli aveva fatto il padre, viaggiava con una valigia piena di medicine e in media annullava un concerto su tre.

Quando durante un’intervista gli chiesero quale consiglio si sentisse di dare a un aspirante musicista, lui, senza pensarci molto, rispose: “Devi rinunciare a qualsiasi altra cosa per dedicarti unicamente alla musica”.

È un consiglio azzardato, ma ha un fondo di verità, perché se vogliamo diventare veramente bravi in qualcosa, dobbiamo necessariamente rinunciare a qualcosa altro, così da avere il tempo e le risorse per investire nel nostro progetto.




 

Maria Callas e l’importanza di trovare il giusto maestro.

Maria Callas è considerata una delle più grandi soprano di tutti i tempi. La sua fama e la sua voce erano tali da valerle l’appellativo di “Divina”. Ciò nonostante da piccola era goffa, sgraziata e non aveva particolari velleità musicali. Tutto cambiò quando, a sedici anni, la Callas entrò nel conservatorio di Atene ed ebbe la fortuna di avere come insegnante Elvira de Hidalgo, soprano spagnola, che la fece appassionare alla musica.

Grazie a questo incontro la Callas iniziò la sua veloce trasformazione nella Divina cantante che fece la storia della musica. Spesso si pensa che il ruolo di un insegnante si quello di insegnare. Quello di trasmettere e condividere il sapere. Ma questa è la base. È un gesto quasi meccanico. Il vero ruolo di un insegnante è quello di far appassionare i propri studenti, di farli innamorare della materia. E questo è un gesto profondamente umano.




 

Music Placement.

Da una settimana, “Running Up That Hill” di Kate Bush è la canzone più ascoltata al mondo su Spotify. Il motivo: È la canzone principale della nuova stagione della serie “Stranger Things”.

Il ché fa pensare a un nuovo modello di business, il “Music Placement”: Inserire, a pagamento, una canzone per farla salire (o tornare come nel caso di Running…) in classifica. Un po’ come i Product Placement (qui ce ne sono più di 67000), ma per la musica.

Sarebbe un modello che invertirebbe il paradigma. Da gare per poter utilizzare una canzone in un film ad essere pagato.




 

Arte artificiale.

Il 5 Aprile del 2016 ad Amsterdam, di fronte a una folla di curatori e appassionati d’arte, è stato svelato il primo Rembrandt-Non-Rembrandt. Un ritratto di un uomo, leggermente di profilo con un largo cappello nero che gli ingombra il vis, due profondi occhi scuri e un pizzo biondi che poggia appena su un largo collare in pizzo bianco. Il ritratto ha tutte le caratteristiche dello stile tipico del pittore olandese. Tuttavia, quel ritratto non è stato fatto da Rembrandt ma da un suo clone virtuale.

Tutto ha inizio qualche anno prima quando un gruppo di ricercatori alla Microsoft e alla Delft University of Technology, sono dell’idea di avere abbastanza dati per permettere a un algoritmo di imparare a dipingere come Rembrandt. Come racconta Marcus Du Sautoy ne “Il codice della creatività”, Ron Augustus, lo specialista della Microsoft che aveva lavorato sul progetto, era convinto che Rembrandt stesso avrebbe approvato il loro tentativo: «Stiamo usando la tecnologia e i dati come Rembrandt usava i suoi colori e i suoi pennelli per creare qualcosa di nuovo». Il team ha studiato in tutto 346 dipinti, creando 150 gigabyte di immagini digitalizzate da analizzare. I dati raccolti includevano l’individuazione di cose come il sesso, l’età e la direzione della testa dei soggetti di Rembrandt, nonché un’analisi più geometrica di vari punti chiave dei volti.

Il progetto ha fin da subito una eco globale, su Twitter si contano più di dieci milioni di menzioni su Twitter nei primi giorni dell’esposizione. Ed effettivamente l’opera realizzata dalla macchina è notevole, tanto che a un primo sguardo è facile scambiarla per un vero Rembrandt. Tuttavia il progetto viene ferocemente bocciato dalla critica di settore.

Sul Guardian, Jonathan Jones scrive: «Che spregevole prodotto della nostra strana epoca, in cui i migliori cervelli si dedicano alle “sfide” più stupide, la tecnologia viene usata per cose per cui non andrebbe mai usata e tutti si sentono obbligati ad applaudire i risultati senz’anima per la riverenza che abbiamo verso tutto ciò che è digitale.» Per poi aggiungere: «Solo vivendo la vita di Rembrandt qualcuno o qualcosa potrebbe sperare di creare l’arte di Rembrandt. Come può un computer replicare l’umanità del ritratto di Rembrandt della sua amante Hendrickje Stoffels? Dovrebbe prima andare a letto con lei. Dovrebbe anche sperimentare la peste, la povertà, la vecchiaia e tutte le altre esperienze umane che rendono Rembrandt ciò che era e la sua arte ciò che è.»

Tutto questo accadeva sei anni fa. Da allora l’Intelligenza Artificiale sta facendo passi da giganti. Anche nell’ambito della creatività. Oggi i robot sono in grado di scrivere brevi romanzi, sceneggiature di film, articoli, testi pubblicitari e persino barzellette.

Sono inoltre in grado di comporre musica e canzoni (come l’orecchiabile e dalle influenze Beatles “Daddy’s car”, sempre del 2016), o generare immagini e opere d’arte.

Non è da escludere dunque che quello che è successo con Rembrandt, succeda un domani con molti altri artisti. Essere riportati in vita da altererò virtuali capaci di generare nuove opere in pochi secondi. In un futuro, neanche tanto remoto, potrebbe esserci un Picasso virtuale che sforna migliaia di quadri o disegni ogni anno. E magari avranno anche un mercato o qualcuno potrebbe scambiarli per opere originali. Possibile, probabile direi. Già adesso, in pochi secondi con DALL-E si possono generare migliaia di illustrazioni “alla Picasso”, come queste che ci siamo divertiti a fare in Oblique:

Quello che però è altrettanto probabile è che una macchina, per quanto intelligente e sofisticata, non sarà mai in grado di vivere la vita di Picasso e quindi vivere tutte quelle esperienze drammatiche, profonde ed eccitanti che hanno portato alla nascita di capolavori come Guernica.

Una macchina può riprodurre un’opera di Picasso come Guernica, ma non potrà mai vivere le esperienze che hanno portato all’ideazione a alla creazione di Guernica.

E la differenza tra un artista reale e un artista virtuale starà proprio in questo: vivere una vita da artista e non solo produrre opere come un artista. Quello che farà veramente la differenza sarà il concetto, l’idea e il percorso che porterà a un’opera e non l’opera in sé. Oggi nell’arte contemporanea è già così. Ma più l’arte sarà artificiale e riproducibile, più il valore aggiunto sarà dato da quello che l’opera rappresenta. La sua storia, la sua vita.




 

La fatica d’immaginare il cambiamento.

Noi esseri umani abbiamo una capacità che nei millenni ci ha permesso di sopravvivere, evolverci e dominare questo pianeta. La capacità di adattarci velocemente ai cambiamenti. Cose che un tempo erano considerate normali sono oggi considerate un abominio (dalla schiavitù alla segregazione razziale). Così come cose un tempo considerate assurde sono oggi considerate normali (da controllare la posta cinquanta volte al giorno a girare sempre con un telefono in tasca).

Tuttavia, c’è un’altra capacità tipica di noi esseri umani e che non possiamo permetterci di perdere. La capacità di meravigliarci. La meraviglia, come ci ricorda Aristotele nella sua Metafisica, è quello che ha permesso agli uomini di cominciare a filosofare. È ciò che fa nascere in noi il senso critico, che ci fa fare domande e quindi ci porta a trovare risposte. Qualcosa di essenziale, ma che tuttavia stiamo rischiando di perdere.

La meraviglia, come ci ricorda Aristotele nella sua Metafisica, è quello che ha permesso agli uomini di cominciare a filosofare. È ciò che fa nascere in noi il senso critico, che ci fa fare domande e quindi ci porta a trovare risposte

Grazie a internet, abbiamo musica, cinema e informazioni a una portata di click. E ci sembra normale. Quando invece è tutt’altro che normale. È straordinario. Ogni volta che facciamo una ricerca su internet, ogni volta che parliamo in video conferenza con una persona dall’altra parte del mondo, ogni volta che viene scoperta una nuova medicina per curare un nuovo male, ogni volta che un pozzo d’acqua viene aperto in una regione remota dell’Africa centrale, bisognerebbe fermarsi e mettere a fuoco lo stupore del cambiamento. Si dovrebbe vivere ogni giorno con gli occhi del fanciullino di Pascoli che scova la maraviglia in ogni dove per cogliere lo straordinario nell’ordinario.

La meraviglia è l’origine del pensiero creativo, persino la filosofia (Iride), secondo l’accezione raccontata da Platone nel dialogo Teeteto, è figlia della meraviglia (Taumante). Invece la direzione sembra quella opposta. Scivolare dall’impensabile al quotidiano dimenticandosi dello straordinario e dello stupore. Questo è il rischio maggiore del cambiamento: intendere il cambiamento come qualcosa di passivo. Subirlo o, semplicemente, trasformarlo in routine. Al contrario, all’interno della formula stessa di cambiamento sono contenuti concetti quali la visione, l’insoddisfazione per lo status quo e la creazione di nuovi processi fisici e mentali. Il cambiamento prevede una necessaria partecipazione attiva o, meglio, proattiva.

Dobbiamo fare nostra la fatica d’immaginare il cambiamento, sforzarci di pensare a come sfruttare il cambiamento per generare altro cambiamento. Impegnarci nel tendere sempre verso lo stupore.

Dobbiamo fare nostra la fatica d’immaginare il cambiamento, sforzarci di pensare a come sfruttare il cambiamento per generare altro cambiamento. Impegnarci nel tendere sempre verso lo stupore. Non possiamo dimenticare com’era il mondo prima del cambiamento, sia esso un cambiamento positivo o negativo. Perché è il passato che ci permette di meravigliarci del futuro. È un rapporto necessariamente dialettico. Se ogni tanto non guardiamo al passato e se diamo per scontato il futuro, finiremo per non accorgerci più di quello che ci sta davanti.




 

Le nuove idee non lavorano dove lavori tu.

L’idea per il mio primo libro l’ho avuta mentre facevo la doccia dopo aver corso. L’idea per il secondo libro l’ho avuta mentre davo da mangiare a mio figlio di fronte al mare di San Vito Lo Capo. Quella per il terzo libro mentre ero in tram e quella per il mio primo romanzo (che non ho ancora scritto, ma che prima o poi scriverò!) mentre mi stavo stirando una camicia. Te lo scrivo perché sono convinto che le nuove idee non lavorano dove lavori tu. E neanche dove lavoro io. Perché il modo migliore per avere nuove idee è uscire dal luogo dove lavori tutti i giorni. Tutti i più grandi creativi facevano così. Gustav Mahler componeva in un cottage tra le Alpi e ogni giorno camminava ore per avere l’ispirazione per scrivere nuova musica. Charles Dickens scriveva per cinque ore al giorno e poi faceva una passeggiata di tre ore per avere nuove idee. Sono buoni esempi. Scegli tu cosa fare. Puoi fare una passeggiata come Dickens o Mahler, oppure andare a correre, o a vedere una mostra, o qualsiasi altra cosa, purché sia fuori dal tuo ufficio.




 

Attività differenti, strumenti differenti.

Un tempo avevo tanti strumenti. Poi è arrivato lo smartphone e per molti anni è stato il mio solo strumento. L’unico che mi portavo dietro ovunque andassi. Lo usavo per tutto. Lavorare, leggere, fotografare, controllare la mail, scrivere i miei appunti, chiamare e comunicare. Oggi sono tornato indietro. Da più di un anno, sto usando lo smartphone sempre meno. Adesso uso il mio taccuino di carta per scrivere. L’orologio per guardare l’ora. Kindle per leggere i libri. La sveglia per svegliarmi. Il computer per lavorare. La macchina fotografica per fotografare. Lo stereo (o il mio vecchio iPod) per ascoltare musica e così via. È ovviamente molto più scomodo, devo andare in giro con più strumenti. Ma funziona molto di più. Perché avere uno strumento differente per ogni attività mi aiuta a concentrarmi di più su quella attività. È come se usando quello specifico strumento comunicassi al mio cervello che sto facendo proprio quella specifica attività. E non dieci attività contemporaneamente. E questo mi rende più produttivo.




 

Locale o digitale.

Leggendo il bilancio del terzo quadrimestre di Warner Music Group emerge un dato interessante: in diversi paesi, tra cui l’Italia, almeno il 50% dei top-selling singles sono di artisti locali e non di grandi star internazionali.

Trovo questo dato interessante perché in un mondo sempre più globalizzato e digitale, come consumatori, stiamo tornando ad apprezzare i prodotti locali e le esperienze analogiche il che giustifica, per rimanere sempre all’interno del settore musica, la crescita delle vendite dei vinili.




 

Reinventare lo studio di Design.

Studio Neat è stato fondato nel 2010 da Tom Gerhardt e Dan Provost con una missione: creare prodotti semplici per risolvere problemi concreti. Inizialmente producono solo oggetti di design (un treppiedi per iPhone, un taccuino, una penna…), poi scrivono un libro, lanciano App, aprono un loro podcast e un programma di mentorship.

Oltre alla qualità dei loro prodotti, quello che trovo più interessante di questo progetto è che fin dal loro primo prodotto (Glif, un treppiedi portatile per iPhone 4) hanno utilizzato il Crowdfunding non solo come forma di finanziamento ma anche come forma di promozione. E questo ha permesso loro di rimanere snelli, agili e “neat”.

Raccogliere soldi attraverso una campagna di crowdfunding è una soluzione molto interessante perché non solo raccogli i fondi che ti servono ma, contemporaneamente, fai un test di mercato (gratuito) e cominci a costruire una community di clienti e advocate. Su Internet stanno nascendo sempre più piattaforme. Di base possono essere di tre tipologie:

  • Reward Based: Campagna di crowdfunding che, in cambio di un versamento in denaro, prevede un reward, ovvero una ricompensa. Questa ricompensa è generalmente il prodotto stesso e, in aggiunta, un riconoscimento che può essere un ringraziamento sul sito oppure servizi o prodotti aggiuntivi.
  • Equity Based: Campagna di crowdfunding che, in cambio di un versamento in denaro, prevede la cessione di una parte delle quote della società. E quindi, chi partecipa alla campagna, versando dei soldi, diventa socio del progetto.
  • Donation Based: Campagna di crowdfunding che viene spesso utilizzata da organizzazioni no profit per finanziare iniziative senza scopo di lucro attraverso donazioni.

Le piattaforme disponibili cambiano da Paese a Paese, le più note sono KickstarterIndiegogo e Ulule oppure in Italia Eppela o DeRev. Esistono anche piattaforme focalizzate su specifici settori come la musica (Music Raiser), oppure la scuola (School Raising), così come piattaforme di Equity-crowdfunding come MamaCrowd.




 

Perché non sono multitasking.

Un articolo preso dal mio blog del 2007/2015.

Perché non voglio esserlo.
Viviamo nell’era dello stile di vita slash. Tanto che fare un solo lavoro sembra quasi anacronistico. Una perdita di tempo. Eppure nessuno ci obbliga ad essere multitasking. È una nostra scelta. E io ho scelto di non esserlo. Già negli anni sessanta lo scrittore e religioso Thomas Merton sosteneva che «impegnarsi in troppi progetti e volerli realizzare tutti vuol dire soccombere alle violenze dei nostri tempi». E non aveva tutti i torti. La molteplicità è molto affascinante e rappresenta bene le sfaccettature della complessità contemporanea, però rischia di far perdere la concentrazione sulle cose e sui progetti realmente interessanti, con un enorme dispendio di energie che non porta a nessun risultato concreto. Soprattutto quando si cerca di essere o fare più cose contemporaneamente.

Perché essere multitasking non vuol dire essere più produttivi, anzi.
Siamo circondati da tecnologia che ci promette di mandare la nostra produttività alle stelle. App, programmi di project management, siti internet. Oggi possiamo spedire mail mentre corriamo e ascoltiamo musica. Eppure la realtà sembra molto diversa. In un articolo pubblicato il mese scorso sul The Wall Street Journal, Alain Blinder sottolinea come su un arco di 143 anni l’aumento medio annuo della produttività negli USA è stato del 2,3% annuo, il che ci ha consentito di moltiplicare 25 volte il nostro tenore di vita. Ma dall’inizio di questo decennio, la produttività è crollata dal +2,6% al +0,7%. Il che sembra un paradosso. Però, a pensarci, da quando ho smesso di essere sempre multitasking sono anche molto più produttivo.

Perché più si è multitasking e meno si gode.
Fare troppe cose contemporaneamente non permette di goderne nessuna. Parafrasando Montaigne, quando leggo leggo, quando mangio mangio. Se mangio e leggo insieme finisco per non rendermi conto di quello che sto mangiando oppure di non capire a fondo quello che sto leggendo. Non è che non lo faccio. Fisicamente sto leggendo e sto mangiando. Arrivo tanto alla fine del libro quanto alla fine del piatto. Ma quello che mi rimane è completamente diverso. È un’esperienza completamente diversa. Non riesco ad assaporare il gusto di quello che sto mangiando così come non riesco ad apprezzare la bellezza o la profondità di quello che sto leggendo. E questo è uno spreco.

Perché non sono una macchina.
Secondo uno studio della Oxford University il 47% dei lavori attuali (dal dentista, all’economista, così come dall’attore all’agente immobiliare) potrebbe essere automatizzato nel giro delle prossime due decadi, e questo ha creato un diffuso senso di ansia sul futuro di centinaia di migliaia di lavoratori. Tuttavia quello che mi spaventa di più non è che un giorno dei robot possano diventare degli umani e quindi fare un lavoro che oggi facciamo noi ma, al contrario, che gli umani si trasformino in robot e quindi perdano la loro capacità di immaginare nuovi lavori. Fare tante cose contemporaneamente, così come essere multitasking, è qualcosa che ogni macchina può fare. Usare l’immaginazione, la creatività, elaborare pensieri profondi e articolati concentrandosi su un solo concetto, sono invece caratteristiche che solo noi umani possediamo.

Perché essere multitasking riduce la qualità del risultato di ciò che si fa.
Non è solo una questione di produttività o quantità ma anche (e soprattutto) di qualità. Come ci ricordava Buster Keaton, nel suo capolavoro La palla n. 13: «Non provare a fare due cose contemporaneamente e aspettarti di fare bene entrambe». E aveva ragione. Quando faccio più cose contemporaneamente mi viene solo un gran mal di testa e le faccio tutte male. E, tenendoci molto a quello che faccio, finisce che lo devo rifare impiegandoci, di fatto, non il doppio ma almeno il 50% del tempo in più.

Perché preferisco fare tante cose in sequenza piuttosto che contemporaneamente.
Il tema non è quante attività si stanno facendo, più sono più si avrà la possibilità di adattarsi a un contesto in continuo cambiamento. Quello che importa è avere una sequenzialità che permetta di portare a termine un progetto prima di aprirne un altro. Un po’ come l’opera di Marcel Duchamp 11 Rue Larrey, Paris esposta alla Biennale di Venezia del 1978, dove c’era una sola porta per due stanze affiancate così che per aprirne una bisognava per forza chiudere l’altra e viceversa.




 

Il tempo vale più dei soldi.

Il tempo vale più dei soldi, è un concetto meramente economico. Il tempo è finito – puoi essere la persona più importante o ricca del mondo, ma avrai sempre 24 ore al giorno e 365 giorni all’anno. Il denaro invece è infinito – potenzialmente si può continuare ad accumulare ricchezza senza limiti. E da sempre un bene finito vale di più di un bene infinito.

Tuttavia, il valore del tempo è sempre stato sottovalutato per dare maggiore importanza al valore del denaro. Oggi però le cose stanno cambiando. All’interno di un’economia fatta sempre di più da contratti a sottoscrizione (pago una fee fissa per avere tutto il contenuto che voglio), il tempo diventa il nuovo valore di scambio.

Pensiamo a come Netflix o Spotify stanno cambiando il mondo del cinema o della musica. La sfida per un artista non è più avere i tuoi soldi per comprare il CD o il film. La sfida è avere il tuo tempo per guardare un film o ascoltare una canzone. E questo è un paradigma completamente differente.




 

Il ruolo di un padre.

Qualche mese fa sono stato a un matrimonio e, durante la cerimonia, il prete ha raccontato una storia. Un giorno, una mamma porta il figlio che aveva appena iniziato a suonare il pianoforte, a vedere un concerto. Quando entrano nel teatro, la mamma incontra alcune amiche e si mette a parlare con loro. Il bimbo si allontana e gira per il teatro fino a quando non trova una porta con scritto: “Vietato Entrare”. Lui la apre e entra. Quando le luci in sala si abbassano, la mamma si rende conto che suo figlio si è allontanato e, presa dall’agitazione, inizia a cercarlo. Il sipario si apre e il bimbo è lì immobile davanti al pianoforte. Non sa cosa fare e così improvvisa qualche nota. Il pianista sale sul palco, si siede accanto al bimbo, mette una mano sulla spalla del bimbo e con l’altra accompagna le note del bambino trasformando una musica disordinata in una melodia. Penso sia una bella metafora del ruolo di un padre. Un padre non si deve arrabbiare perché il proprio figlio è curioso e apre porte che non dovrebbe aprire. Ma deve lavorare con lui per trasformare la sua curiosità in un talento.




 

Un film: Rushmore.

Qualche sera fa ho visto “Rushmore”, l’unico film (insieme a “Bottle Rocket”) che mi mancava del regista Wes Anderson. E come tutti i film di Wes Anderson, non ha deluso le mie aspettative. Nel particolare mi sono annotato tre riflessioni:

1) L’importanza di dare una seconda possibilità: Il primo film di Anderson, “Bottle Rocket”, è constato 5 milioni di dollari, ma ne ha incassati poco più di 500.000. Ovvero, dal punto di vista economico è stato un disastro. Fortunatamente però il talento del regista americano è valso di più del Box Office e così gli è stata data una seconda possibilità, e da “Rushmore” in avanti i film di Anderson sono stati un successo tanto di pubblico quanto di critica.

2) L’importanza dello stile: “Rushmore” è il secondo film di Anderson, ciò nonostante fin dal primo frame si capisce che è un suo film. L’inquadratura, la musica, la tonalità della pellicola, le grafiche. Anderson è stato in grado fin da subito di fare le cose a modo suo e crearsi uno stile inconfondibile.

3) L’importanza della colonna sonora: “Rushmore” è un film molto bello, ma è ancora più bello grazie alla sua colonna sonora.




 

Corrente #72: Ansia del Tempo.

Nella storia della musica, il 14 agosto 1995 è ricordato come il giorno della battaglia delle band, quando le due più importanti band britanniche degli anni Novanta, i Blur e gli Oasis, uscivano in contemporanea con il loro nuovo singolo.

All’inizio, sono i Blur a vincere la battaglia ma, nel lungo periodo, gli Oasis venderanno molti più dischi e terranno, l’11 agosto 1996 a Knebworth, il più grande concerto a pagamento di tutti i tempi.

Come dimostra questa storia spesso arrivare primi non è garanzia di successo, anzi è vero il contrario. Se pensiamo alla tecnologia, le ultime decadi sono piene di primi che hanno poi lasciato il posto ad altri. Yahoo è arrivato prima di Google. Hotmail è arrivata prima di Gmail. Messenger è arrivato prima di Skype che è arrivato prima di Whatsapp. Così come MySpace è arrivato prima di Facebook e Nokia prima di Apple.

Ciò nonostante siamo ossessionati dall’idea di iniziare qualcosa per primi. O, se vogliamo ribaltare il concetto, siamo ossessionati dall’idea che sia troppo tardi per cominciare qualcosa.

Soprattutto oggi, intrappolati in un contesto socio-economico sempre più dinamico e veloce, abbiamo spesso l’impressione che se non cogliamo subito un’occasione la perderemo per sempre. Da cui, fenomeni tipici del nostro tempo come la FOMO o la meno conosciuta Ansia da tempo, espressione coniata da Anne-Laure Le Cunff per indicare l’ossessione, appunto, di spendere il proprio tempo nel modo più significativo possibile con la costanza paura che sia troppo tardi per iniziare qualcosa di nuovo o raggiungere un obiettivo.

Oggi, intrappolati in un contesto socio-economico sempre più dinamico e veloce, abbiamo spesso l’impressione che se non cogliamo subito un’occasione la perderemo per sempre.

Secondo Le Cunff, l’ansia da tempo può manifestarsi in diverse forme come l’ansia da tempo corrente, ovvero la sensazione quotidiana di fretta che ci fa sentire sopraffatti e in preda al panico. Oppure l’ansia da tempo futuro che prende forma in quei pensieri su ciò che potrebbe o non potrebbe accadere in futuro, che sono poi causa di preoccupazione e di domande interne del tipo «e se…», o ancora l’ansia da tempo esistenziale e quindi la sensazione di un tempo perduto che scivola via per non tornare mai più.

Tuttavia c’è una soluzione per combattere queste forme d’ansia: sapere cosa per noi è veramente importante e dedicargli tempo.

Un consiglio vecchio come il mondo, me ne rendo conto, che affonda le sue radici nel “conosci te stesso” di Socrate, ma che mai come ora è importante. Se sappiamo quello che vogliamo infatti, anche in un mondo così ricco di stimoli e opportunità come quello in cui viviamo oggi, il tempo diventa un elemento a nostro favore. Scorre, e su questo non possiamo farci nulla, ma sta a noi farlo andare nella direzione giusta.

Quindi permettimi di chiudere con un’inflazionata citazione da motivatore: come diceva Michael Altshuler, la cattiva notizia è che il tempo vola. La buona notizia è che il pilota sei tu.




 

Il paradosso della pubblicità ai tempi di Spotify.

Da più di cent’anni le aziende fanno di tutto per farci sembrare la pubblicità come qualcosa di bello, coinvolgente ed emozionante. Qualcosa che vogliamo vedere, non che dobbiamo vedere. Poi arriva il modello di business Freemium (qui inteso come la possibilità di pagare per togliere la pubblicità) e la pubblicità tradizionale si palesa per quella che è: un terzo incomodo tra noi e quello che vorremmo fare, vedere o sentire. Pensa al Kindle di Amazon, che puoi comprare a prezzo scontato se accetti di avere al suo interno la pubblicità. Oppure pensa a Spotify dove puoi ascoltare la musica gratis, ma se vuoi togliere la pubblicità devi pagare 9,99 € al mese. Modelli di business come questi mettono in luce il paradosso della pubblicità. Da un lato la pubblicità deve essere qualcosa di talmente fastidioso da spingere le persone a pagare pur di toglierla. Dall’altro però, per essere efficace la pubblicità deve essere tutt’altro che fastidiosa. Quindi che fare? Non lo so. Però questo paradosso potrebbe tradursi in un modo per risollevare le sorti della pubblicità tradizionale. Vendere a Brand come Amazon o Spotify pubblicità talmente fastidiose da incrementare il tasso di consumatori che passano alla versione Premium.




 

Imparare a pensare.

“Learning how to think really means learning how to exercise some control over how and what you think.”
– David Foster Wallace

Viviamo all’interno di un ecosistema di distrazioni (notifiche, messaggi, mail, pubblicità, musica, video…) che ci portano a disperdere i nostri pensieri, indebolire la nostra memoria e ci rendono costantemente tesi e ansiosi.

In questo contesto diventa necessario imparare a pensare, imparare a concentrarsi, imparare a scegliere come e cosa pensare. A cosa dare priorità.




 

Corrente #15: Blanding.

L’8 maggio 1886, ad Atlanta, il farmacista statunitense John Stith Pemberton inventa una bevanda per il mal di testa e la stanchezza e la chiama Pemberton’s French Wine Coca. Qualche mese più tardi, decide di togliere l’alcol e sostituirlo con un estratto di noci di cola. A questo punto si rende conto che il nome scelto per la sua bevanda non va più bene. Del french wine era rimasto ben poco. Così, decide di chiamarla Coca-Cola, semplicemente combinando i suoi due ingredienti principali. La coca e la cola. Il 29 maggio 1886, Pemberton pubblica sull’Atlanta Journal la prima campagna Coca-Cola e, pensando sia giunto il momento di dare un logo alla bevanda, il primo gennaio del 1887 riunisce i suoi associati: Holland, suo amico di sempre, Doe, primo presidente della Coca-Cola, e Robinson, il ragioniere. I punti all’ordine del giorno sono diversi e mentre si parla di proto-posizionamenti e proto-strategie di marketing, Pemberton intravede sulla copertina del libro contabile di Robinson un’elegante scritta ispirata al carattere Spencerian Script che riportava il nome Coca-Cola. Lo guarda ancora per qualche secondo e poi dice: «Ecco! questo sarà il nostro logo». E da allora, negli ultimi 134 anni il logo della Coca-Cola non è mai cambiato.

Uno dei brand più conosciuti e profittevoli al mondo è nato così. Da un ragioniere che, per vezzo, aveva scritto il nome della società per cui lavorava sul suo libro contabile. Un logo che per più di dieci anni è stato al primo posto della classifica Best Global Brand, scalzato, per la prima volta, da due loghi che hanno avuto un’origine simile a quella di Coca-Cola. Apple e Google. La mela di Apple, che nell’ultimo anno ha guadagnato una crescita del 38% e ha un valore stimato di 323 milioni di dollari, è stata inizialmente tradotta in logo dal terzo fondatore dell’Apple Computer, l’ingegnere Ronald Wayne. Allora il logo rappresentava Sir Isaac Newton seduto sotto un albero poco prima di essere colpito in testa dalla mela. Il logo, così com’era, non si prestava alla sua riproduzione sui computer così, nel 1977, fu ridisegnato dal designer Rob Janoff, che lo creò per fare un favore a Regis McKenna, suo datore di lavoro e amico di Steve Jobs. Il logo (originale) di Google fu invece disegnato dal suo co-fondatore Sergey Brin utilizzando il programma gratuito GIMP e basandosi sul font Catull disegnato dal designer Gustav Jaeger nel 1982.

Molti dei più famosi loghi al mondo sono stati disegnati dai fondatori stessi o da designer allora sconosciuti. Il logotipo della Disney è stato scritto da Walt Disney in persona nel 1923. Il logo di Twitter è stato pagato 15 dollari. Lo Swoosh della Nike fu inventato da Carolyn Davidson, una studentessa di grafica alla Portland State University, nel 1971 e fu pagato 35 dollari a fronte di un lavoro di 17 ore. Ciò che ha reso questi marchi conosciuti in tutto il mondo non è stata la loro estetica, ma il loro contenuto e il loro carattere. Il fatto di essere unici e di rappresentare una storia unica. Parto da queste storie di branding per introdurre la corrente di oggi: il Blanding, ovvero la tendenza di un’azienda o di una Startup a semplificare e omologare il proprio logo agli standard del settore.

Blanding: Tendenza di un’azienda o di una Startup a semplificare e omologare il proprio logo agli standard del settore.

La parola “Blanding” viene dall’aggettivo inglese “Bland”, che possiamo tradurre come insipido, noioso, o sciatto e che a sua volta deriva dal latino blandus, carezzevole. È un termine che sembra essere all’opposto di quello di “Branding” che viene sempre dall’inglese “Brand” inteso tanto come verbo (marchiare) quanto come sostantivo (stile). Eppure oggi la tendenza sembra essere quella di passare dal Branding al Blanding. Passare dai loghi, magari amatoriali, ma sicuramente caratteristici e ricchi di personalità come quello disegnato dal primo ragioniere della Coca-Cola, a loghi più standardizzati come quelli delle grandi Big Tech americane (dal nuovo logo di Google passando per quello di AirBnb, Spotify o Pinterest) o delle grandi case di moda (dal graziato perduto di YvesSaintLaurent ai nuovi loghi di Balmain o Burberry). Con il paradosso (economico) che lo sgraziamento e l’omologazione di un brand viene a costare molto di più dell’ideazione di un brand originale e distintivo.

Il Blanding è un fenomeno che va oltre il mondo del Graphic Design e intercetta uno dei tanti paradossi della nostra epoca: di fronte a un numero sempre maggiore di scelte e possibilità tendiamo a fare tutti le stesse cose. Ascoltiamo la stessa musica. Guardiamo le stesse serie o gli stessi film e abbiamo tutti bisogno di vedere immagini familiari o loghi puliti e immediati. Tendenza che si acuisce nei momenti di crisi quando sentiamo ancora di più il bisogno di certezze, di rassicurazioni e, quindi, di omologazione. Di fronte alla complessità e all’incertezza cerchiamo immagini semplici e iconiche. Parola che, non a caso, viene dal greco eikón ‘immagine’, derivato di eikénai ‘essere simile’.




 

Social Elite.

Funziona così nella musica, funziona così nel cinema, funziona così nell’arte e, come dimostra questo grafico, estratto da un report di Visual Capitalist, funziona così anche nei Social Media: milioni di persone contribuiscono alla creazione di un mercato dove però una piccolissima percentuale di persone riesce a ricavarne un profitto.




 

Corrente #49: Nowstalgia.

«Siamo sempre a casa nel nostro passato.» Una frase di Nabokov che potrebbe spiegare il dilagante senso di nostalgia che caratterizza la nostra epoca. Di fronte al cambiamento, all’incertezza e alla precarietà ci sentiamo inquieti, a volte impauriti, e così rifuggiamo in quei luoghi dove abbiamo l’illusione di sentirci al sicuro, di sentirci a casa, come il passato, o almeno come la visione idealizzata del passato, dove i nostri ricordi assumono le sembianze che noi vogliamo dar loro.

È una sensazione che ci riguarda tutti, a qualsiasi età, compresi i giovani. In uno studio condotto su una popolazione di età compresa tra i 16 e i 25 anni infatti, il 75% ha dichiarato che “il futuro è spaventoso” e più della metà ha affermato che “l’umanità è condannata”. Un altro studio di Fidelity ha evidenziato come quasi la metà delle persone di età compresa tra i 18 e i 35 anni “non vede l’utilità di risparmiare fino a quando le cose non torneranno alla normalità”. Il 55% di tutti gli intervistati ha inoltre dichiarato di aver messo da parte la pianificazione della pensione.

Di fronte a questi dati dunque, è normale che il nostro presente è intriso di nostalgia. La politica che promette un ritorno a un passato glorioso. I social Media che ci ripropongono ricordi del passato. Il cinema che produce un sequel dietro l’altro. Le serie televisive ambientate in un passato che non c’è più (e che forse non c’è mai stato). Tutto sembra guardare più al passato che al futuro. Tanto che nel marketing, la nostalgia è diventata una vera e propria strategia usata da molti brand per coinvolgere e rassicurare il proprio pubblico, perché, come ribadisce il professore di psicologia Clay Routledge, in tempi di incertezza dove nessuno sa dove stiamo andando, la nostalgia è una forza stabilizzatrice che ci fa sentire più sicuri.

Di fronte al cambiamento, all’incertezza e alla precarietà ci sentiamo inquieti, a volte impauriti, e così rifuggiamo in quei luoghi dove abbiamo l’illusione di sentirci al sicuro come il passato, o almeno come la visione idealizzata del passato, dove i nostri ricordi assumono le sembianze che noi vogliamo dar loro.

Da qui la nascita di diversi fenomeni più o meno correlati alla nostalgia, come la “Nowstalgia” ovvero la tendenza, tipica della Generazione Z, di rivivere la moda dei primi anni 2000 che si inserisce in un più ampio fenomeno di nostalgia per il passato e paura per il futuro. Oppure, andando indietro di qualche anno, la “Netstalgia”, la nostalgia per com’era Internet un tempo, prima dei Social Media e dei monopoli delle Big Tech. O ancora la “Fauxstalgia”, ovvero la nostalgia per un passato che non abbiamo mai vissuto direttamente ma solo indirettamente tramite, per esempio, i film o la musica, per poi concludere con la “Solastalgia”, un neologismo nato dall’unione della parola latina “solacium” (conforto) e di quella greca “algia” (dolore), che indica lo stato di disagio derivante dal cambiamento ambientale del luogo in cui si vive.




 

Parliamo di immortalità… si-può-fare!

Qualche settimana fa ho ascoltato un’intervista tra uno dei più importanti podcaster americani Joe Rogan, ancora vivo, e il fondatore di Apple, Steve Jobs, morto 11 anni fa. Ovviamente non solo Steve Jobs ma anche Joe Rogan erano un falso. Tuttavia erano un falso molto verosimile, realizzato grazie a un’Intelligenza Artificiale in grado di parlare e pensare come Jobs e Rogan.

Un mese fa invece leggo che l’attore Bruce Willis avrebbe ceduto i diritti per fare film con la sua faccia anche quando un domani lui non ci sarà più. Anche qui, un falso, ma tuttavia un falso molto verosimile visto che grazie alla tecnologia DeepFake già oggi è piuttosto facile appiccicare il volto di una persona al corpo di un’altra.

Ma questa non è una novità. Pensiamo al mondo della musica. “Sunset (Bird of Prey)” è una canzone del 2000 di Fatboy Slim con Jim Morrison che è morto nel 1971. “Free as a Bird” è una canzone del 1995 dei Beatles con la voce di John Lennon che è morto nel 1980.

Oggi però questa tendenza potrebbe essere amplificata dalle possibilità date dall’Intelligenza Artificiale e applicata, potenzialmente, a chiunque e a qualsiasi settore. In Oblique per esempio stiamo lavorando a un Chatbot di Alan Turing (che presenteremo l’11 Novembre in un talk in occasione della Milano Digital Week).

Esattamente come il tentativo del dottor Frederick Frankenstein di riportare in vita un cadavere finì per generare un mostro, la stessa cosa potrebbe accadere con gli avatar di persone defunte o i DeepFake di attori scomparsi.

E dunque, parlando di immortalità e ricordando la celebre frase del film “Frankenstein Junior”, potremmo dire che «Si-Può-Fare!». Ma esattamente come il tentativo del dottor Frederick Frankenstein di riportare in vita un cadavere finì per generare un mostro, la stessa cosa potrebbe accadere con gli avatar di persone defunte o i DeepFake di attori scomparsi.

Uno dei casi più significativi è stato l’esperimento, fatto nel 2020, quando a una madre sudcoreana è stata data la possibilità di parlare e interagire con la propria figlia scomparsa quattro anni prima (trovi il video e un approfondimento qui). Oppure il caso della founder di Luka AI che ha creato un chatbot per parlare con un amico mancato qualche anno prima. O di Lulu, la donna cinese che ha pubblicato la lunga chat avuta con la madre defunta.

Il che ci porta a farci una domanda ancora più grande. Il fatto che qualcosa, grazie alla tecnologia, si possa fare, dobbiamo farla per forza? Nel caso specifico dei chatbot virtuali di parenti o amici scomparsi, qual è il limite? Ma soprattutto, qual è il senso?

Il fatto che qualcosa, grazie alla tecnologia, si possa fare, dobbiamo farla per forza? Nel caso specifico dei chatbot virtuali di parenti o amici scomparsi, qual è il limite? Ma soprattutto, qual è il senso?

Non dico che sia sbagliato a priori, ma penso che più la tecnologia sarà evoluta più sarà importante interrogarsi su tematiche così delicate come questa, per evitare che l’entusiasmo per il nuovo, unito alla velocità del progresso tecnologico, ci faccia perdere di vista il senso di quello che possiamo fare.




 

Cinque appunti sul fallimento.

Ieri ho avuto il piacere di condividere con Montserrat Fernandez Blanco alcune riflessioni sul concetto anglosassone di FAST FAIL (“Fallire Veloce”). Per quanto sia un mantra molto in linea con i tempi dinamici che stiamo vivendo penso che sia difficilmente applicabile a un contesto come il nostro. Almeno per due variabili:

  1. Il contesto: il nostro è un contesto più lento, macchinoso e burocratico.
  2. La cultura: la nostra è una cultura dove il fallimento è ancora visto e percepito come uno peso.

E quindi, piuttosto che prenderlo così com’è penso sia utile per stimolare alcune riflessioni sul tema del fallimento. Me ne sono appuntati cinque:

 

01. Fast Fail (but Learn Slow).
È giusto imparare a fallire più spesso, ma dobbiamo darci il tempo per maturare e pensare agli sbagli commessi, altrimenti il mantra del “Fast Fail” si trasforma in una buona scusa per non affrontare e non ammettere il fallimento.

Un buon esempio qui ci viene da Richard Branson che nel 1971, passò una notte con l’accusa di contrabbando di dischi, che il giovane Branson importava dal Belgio con un furgoncino per poterli rivendere esenti da imposte. Per sua fortuna riesce però ad uscire su cauzione, 30.000 sterline pagate da sua madre, oltre a una penale pari a 45.000 sterline. Branson paga tutto fino all’ultimo penny e trova il modo di trasformare questo errore in un vantaggio. Trovandosi con le spalle al muro, s’impone l’obiettivo di guadagnare, legalmente, molto di più di quello che la Virgin avesse fatto fino ad allora. Apre nuovi negozi e sviluppa nuove idee per ampliare la sua attività, traendo da quell’errore molti degli insegnamenti che sono stati alla base del suo futuro successo.

 

02. Ridurre il rischio con l’MVP.
Un tema chiave delle Startup oggi è l’MVP, il “Minimum Viable Product”, che in italiano potrebbe essere tradotto come il prodotto minimo funzionante, ovvero un prodotto con le caratteristiche indispensabili per essere introdotto nel mercato e fare un test della propria idea. Questa strategia permette di testare il mercato riducendo il tasso di rischio e quindi permette di fallire, senza fallire troppo.

Un “cattivo” esempio qui ci viene da Dean Kamen che mentre stava sviluppando il Segway non chiese mai feedback o pareri a nessuno, passò tutto il tempo chiuso nel suo laboratorio spaventato dalla possibilità che qualcuno gli rubasse l’idea. Pensava che il suo prodotto avrebbe cambiato per sempre il modo in cui le persone si muovono. Ma non è andata così e dopo vent’anni, ben poche persone girano per le strade con il suo veicolo elettrico a due ruote. Se invece avesse fatto dei piccoli test di mercato intermedi probabilmente avrebbe rischiato e fallito molto meno.

 

03. Il ruolo del caso.
Come sottolinea il filosofo Taleb, nessuno accetta il caso come causa del proprio successo, ma solo del proprio fallimento. Ed è vero, uno degli errori più grandi che possiamo fare come investitori o come imprenditori è confondere la fortuna con il talento. Dare troppo peso al risultato e troppo poco al processo che ha portato a quel risultato. Soprattutto di fronte a un successo. Ci sono però due variabili che possono accrescere la nostra possibilità di influenzare il destino e aumentare le nostre possibilità di avere successo e di fallire meno.

  • Variabile 01. Quantità: più facciamo più abbiamo possibilità di avere fortuna.
  • Variabile 02. Contesto: migliore il contesto e maggiori sono le possibilità di avere fortuna.

Un esempio di successo dovuto in gran parte al caso ci viene da Scott Hassan. Nel 1995 Hassan lavorava come ricercatore nel dipartimento di informatica di Standford dove ebbe l’occasione di conoscere Larry Page e Sergey Brin che, proprio in quel periodo stavano lavorando a un progetto di ricerca chiamato BackRub che poi diventerà Google. A quei tempi il codice alla base del motore di ricerca aveva molti bug e Hassan passò tre mesi a riscrivere gran parte del codice per il motore di ricerca originale di Google. Qualche anno più tardi, quando Page e Brin fondarono Google, proposero ad Hassan di comprare alcune azioni della società. Hassan accettò e comprò 160.000 azioni di Google per 800 dollari. Dopo più di vent’anni, quelle azioni valgono circa 13 miliardi di dollari.

 

04. Il lato oscuro della perseveranza.
Quando si parla di perseveranza e fallimento vengono subito alla mente due citazioni per certi aspetti opposte ma complementari. La prima è di Winston Churchill che come è noto sosteneva che: «Il successo si misura nella capacità di passare da un fallimento all’altro senza perdere l’entusiasmo.» La seconda invece è di Peter Drucker: «Non c’è nulla di così inutile come fare con grande efficienza qualcosa che non dovrebbe essere fatto.»

Da una parte la perseveranza è uno dei tratti distintivi di qualsiasi imprenditore o manager di successo (da Richard Branson a Ray Kroc) dall’altra però rischia di trasformarsi in un pretesto per non ammettere i nostri errori e continuare a fare qualcosa che non andrebbe fatto.

Qui gli esempi sono molti. Pensiamo a Bruno Iksil, trader di JP Morgan Chase, soprannominato la balena londinese per via delle dimensioni delle sue scommesse azzardate, che negli anni ha raddoppiato una scommessa sbagliata sui derivati pur di non ammettere i suoi errori, creando un buco da 6.2 miliardi di dollari.

Oppure pensiamo a Billy McFarland, imprenditore rampante di inizio secolo che nel 2017 organizza FYRE un “luxury music festival” in un’isola, un tempo proprietà di Pablo Escobar, con l’idea di dare ai propri clienti la possibilità di vivere un’esperienza unica fatta di musica, party e natura incontaminata. Il problema è che né lui né il suo socio, il rapper Ja Rule, hanno idea di come si organizzi un festival. Tuttavia, il progetto diventa virale, centinaia di Influencer lo supportano e migliaia di persone si iscrivono. Risultato: il Festival non avrà mai luogo, migliaia di persone e centinaia di lavoratori vengono truffati e Billy McFarland viene condannato a sei anni di prigione con l’accusa di aver messo in piedi una truffa da 27 milioni di dollari.

 

05. Chiudere non vuol dire fallire:
Ogni volta che chiudiamo qualcosa, liberiamo spazio per qualcos’altro. Se abbiamo già speso troppo tempo su qualcosa che non aveva valore, meglio chiuderlo, non perderci altro tempo. Dobbiamo passare dalla mentalità per cui chiudere=fallire a quella per cui chiudere=scegliere. Scegliere cosa fare e scegliere cosa non fare. Chiudere non è mai la fine ma è sempre l’inizio di qualcosa.

Qui la storia più celebre è forse quella della New Coke del 1984, uno dei più grandi errori della storia del Marketing, che però ha messo in luce anche la capacità della Coca-Cola di reagire con velocità ad un errore per evitare di trasformarlo in una catastrofe.




 

L’Intelligenza Artificiale democratizza il lusso.

Nella puntata 23 della terza stagione di Friends, i sei amici newyorkesi vanno a casa di Pete Becker, il fidanzato milionario di Monica e rimangono a bocca aperta quando in casa trovano video telefoni, frigoriferi intelligenti e luci con accensione vocale.

Oggi sono due cose scontate. Chiunque con uno smartphone può fare una video chiamata e con pochi euro da Ikea si possono comprare lampadine intelligenti. Ma vent’anni fa non era così. Vent’anni fa erano cose che solo un milionario poteva permettersi.

Lo stesso vale per molti altri prodotti. Un tempo avere cibo tutti i giorni più volte al giorno era un lusso, oggi è una necessità. Un tempo avere un televisore o un telefono in casa era un lusso, oggi è una necessità.

L’Intelligenza Artificiale ha ulteriormente accelerato questo processo. Un tempo avere un assistente personale era un lusso, oggi basta un iPhone per avere un assistente (virtuale) sempre disponibile. Un tempo avere decine di scrittori o illustrazioni a propria disposizione era un lusso, oggi con GPT3 o DALLE è qualcosa di possibile per tutti. Un tempo avere un consulente a disposizione con cui parlare in qualsiasi momento era un lusso, oggi grazie all’AI conversazione e al Machine Learning è sempre più accessibile.

Così come Ikea ha democratizzato il design, Amazon ha democratizzato il commercio in modo che tutti possano avere un negozio, Google ha democratizzato l’informazione, Spotify ha democratizzato la musica e YouTube i video, l’intelligenza Artificiale potrebbe democratizzare molte delle cose che un tempo erano considerate un lusso, trasformandole in una necessità.

Quello che un tempo era un lusso, un domani sarà trasformato in una necessità.

Del resto, Adam Smith lo aveva capito già più di duecento anni fa quando sosteneva che quello che un tempo era un lusso, un domani si sarebbe trasformato in una necessità.

Non a caso, l’economista statunitense (alle dipendenze di Google dal 2002) Hal Ronald Varian sostiene che per predire il futuro basti guardare quello che hanno (e vogliono) i ricchi, perché sarà quello che un domani vorranno anche i poveri.




 

Corrente #70: Fast Foodification.

«La cosa più bella di Tokio è McDonald’s. La cosa più bella di Stoccolma è McDonald’s. La cosa più bella di Firenze è McDonald’s. Pechino e Mosca non hanno ancora nulla di bello». Così scriveva Andy Warhol per elogiare la crescente globalizzazione di McDonald’s negli anni Settanta.

Sebbene questa idea di globalizzazione sia stata superata persino da McDonald’s che ha iniziato a proporre panini più locali (dal Bubur Ayam McD in Malesia al McAloo Tikki in India), il concetto di “Fast Foodification” si è diffuso in molte altre sfere della nostra vita, alimentando la sensazione che tutto quello che ci circonda sia mediocre e, di per sé, privo di sapore.

Pensiamo a Internet. Nato come strumento per dare a tutti la possibilità di esprimersi e trovare contenuti unici e originali, alla fine, soprattutto a causa del famigerato Web 2.0 e dei suoi Social Media, si è trasformato in uno strumento di omologazione (o “Fast Foodificazione”) di massa.

Potremmo dire che Internet ci ha reso tutti diversi ma tutti diversi allo stesso modo.

All’inizio di Internet ognuno fruiva i contenuti come e dove voleva, oggi invece usiamo tutti le stesse piattaforme e le usiamo tutti nello stesso modo.

  • Google ha omologato il modo in cui facciamo ricerca su Internet.
  • YouTube ha omologato il modo in cui guardiamo i video.
  • Netflix ha omologato il modo in cui vediamo i film.
  • Spotify ha omologato il modo in cui ascoltiamo la musica.
  • Amazon Kindle ha omologato il modo in cui leggiamo i libri.
  • Gmail ha omologato il modo in cui scriviamo e leggiamo le mail
  • TedX ha omologato il modo in cui facciamo e vediamo i Talk.
  • Amazon ha omologato il modo in cui facciamo acquisti online.
  • Facebook ha omologato il modo in cui proponiamo e consumiamo contenuti online.
  • Substack ha omologato il modo in cui leggiamo e scriviamo newsletter.

Ed esattamente come i panini di McDonald’s che hanno tutti lo stesso sapore perché, di fatto, non hanno sapore, così Internet si sta trasformando in un luogo dove tutto si assomiglia, dove tutti parlano, scrivono e leggono allo stesso modo.

Nascono fenomeni come il Blanding, le aziende rifanno i loro loghi per renderli tutti uguali, i Creator e gli Influencer standardizzano i propri contenuti per assecondare gli algoritmi che decideranno a chi mostrarli, i film, i libri e le serie sono copie di film, libri e serie che hanno funzionato in passato, e così via.

Internet si sta trasformando in un luogo dove tutto si assomiglia, dove tutti parlano, scrivono e leggono allo stesso modo. Potremmo dire che Internet ci ha reso tutti diversi ma tutti diversi allo stesso modo.

È uno scenario triste e per certi aspetti deprimente, all’interno del quale però vedo uno spiraglio di luce. Anzi due. Il primo è l’avvento del Web 3.0 che, spero, riporterà Internet a quella che era la sua vocazione originaria. Il secondo è l’ascesa dell’Intelligenza Artificiale Generativa che vedo come la fine della creatività umana mediocre: nel momento in cui una macchina sarà in grado di fare un’illustrazione o scrivere un articolo in pochi secondi superando il livello qualitativo della media umana, l’unica possibilità di sopravvivenza che abbiamo come esseri umani è quella di tornare a puntare sulla qualità e sull’originalità dei nostri contenuti.




 

Corrente #73: Rewirement.

Un giorno di qualche anno fa passeggiando per un parco a Milano la mia attenzione è stata attirata da una piccola scritta in pennarello nero su muro rosso.

La scritta recitava: “Se ti penso troppo penso al ’68” una frase che mi ha inevitabilmente fatto pensare alla generazione dei Baby Boomer (chi è nato tra il 1946 e il 1964). Una generazione di persone che difficilmente riesce a lasciarsi alle spalle il glorioso passato che hanno avuto la fortuna di vivere e che, nel viverlo, ha in gran parte consumato il futuro delle generazioni dopo di loro.

Un passato segnato dal ’68, ma anche dalla Boom Economy e da una serie di condizioni culturali e materiali che mai si erano verificate nella storia e che forse mai più si verificheranno.

Tanto che sul sito UnHerd, il giornalista Ed West sottolinea come i Boomer siano stati baciati da una fortuna surreale, qualcosa che le generazioni dopo di loro non hanno mai nemmeno sognato: «Per quanto riguarda i più giovani, condannati a un’esclusione perpetua dal mercato immobiliare londinese, e costretti a vivere in una distopia in stile Black Mirror dove resta una traccia di tutto ciò che fanno, l’idea di pagare più tasse per garantire una pensione comoda alla generazione più fortunata della storia deve essere snervante.»

All’interno di questo scenario si inserisce il fenomeno del “Rewirement“, termine opposto a Retirement che indica la tendenza dei Boomer a re-inventarsi una vita professionale o personale a seguito del pensionamento.

Questo fenomeno, che di per sé non ha nulla di negativo anzi si basa su un’invidiabile vitalità, nasconde tuttavia alcuni lati oscuri.

Il primo è di tipo economico. Soprattutto in Italia infatti, anche a causa delle Baby Pensioni, viene da domandarsi se l’attuale sistema pensionistico possa essere sostenibile nel lungo periodo e quindi nasce spontanea la preoccupazione che sottolineava anche West nel suo articolo: non è che i giovani di oggi non solo si trovano a lavorare in un contesto economico molto più povero, tanto di soldi quanto di opportunità, rispetto a quello del trentennio glorioso 1945/1975, ma in più devono pagare le tasse per garantire ai Boomer la pensione con il rischio di non riuscire a percepirne una quando sarà il loro turno?

Per capire la gravità della situazione, basta pensare che nel 37% delle province italiane le persone in pensione superano quelle occupate con un record a Reggio Calabria dove i lavoratori attivi sono 67 ogni 100 pensionati. Contesto ulteriormente aggravato dal fatto che nel nostro Paese il gap salariale tra le generazioni è oggi raddoppiato rispetto al 1985 arrivando al 40% dello stipendio.

Questa idea di evitare il Retirement e abbracciare il Rewirement nasconde forse una volontà dei Boomer di rimanere “Forever Young”, per citare il titolo della meravigliosa ballata di Bob Dylan, menestrello per eccellenza dei Boomer

Il secondo lato oscuro invece è di tipo sociale. Questa incapacità dei Boomer di ritirarsi non rischia di soffocare le generazioni che sono venute dopo di loro? Tanto che, a tal proposito sulla Stampa Francesco Spini scrive: «Lavoro, salari troppo bassi e posti migliori in mano agli anziani, l’Italia è contro i giovani.»

E dunque questa idea di evitare il Retirement e abbracciare il Rewirement nasconde forse la volontà da parte dei Boomer di rimanere “Forever Young“, per citare il titolo della meravigliosa ballata di Bob Dylan, menestrello per eccellenza dei Boomer che a tutto quello di cui hanno goduto si aggiunge anche la migliore musica della storia.




 

È l’IA a creare contenuti sempre migliori o siamo noi esseri umani a creare contenuti sempre meno originali?

Qualche dato interessante che ho trovato su una ricerca sugli utilizzi dell’Intelligenza Artificiale Generativa pubblicata su The Verge qualche giorno fa.

🤖 Quasi il 50% delle persone non ha mai sentito parlare di ChatGPT.

🖼️ Solo il 25% delle persone conosce MidJourney.

👨 I Millenial sono la generazione che usa di più l’IA (e questo, da Millenial, mi inorgoglisce).

👴 I Boomer sono la generazione che usa meno l’IA.

📰 Il 76% degli intervistati pensa che l’IA debba essere allenata su dati verificati (concordo).

😎 Sempre il 76% degli intervistati pensa che dovrebbe essere illegale il Deep Fake (e anche qui concordo).

😰 Le persone spaventate dall’avvento dell’IA superano quelle entusiaste.

🧠 La maggior parte delle persone utilizza l’IA per rispondere a domande (68%) e fare brainstorming (54%). Ottimo utilizzo il primo (“Brainstorming”). Pericoloso utilizzo il secondo (“Rispondere a domande” – ricordiamoci sempre che l’IA non è un Fact Database e spesso inventa).

Ma il dato che fa più riflettere è quello che trovi nel grafico qui sotto: la maggior parte delle persone pensa che l’IA abbia generato un contenuto migliore di quello che avrebbero potuto creare loro.

Questo vale per le immagini, il codice, gli articoli, le e-mail e persino per la musica.

E qui nasce una domanda chiave: È l’IA a creare contenuti sempre migliori o siamo noi esseri umani a creare contenuti sempre meno originali?




 

Clashwerk.

Questo audio nasce dall’unione di due delle mie band preferite i Kraftwerk e i Clash (entrambe degli anni Settanta #boomer). E infatti l’ho chiamato “Clashwerk”.

Ho chiesto a StableAudio (creato da Stability.ai, la stessa di Stable Diffusion) di generare una musica unendo lo stile electropop dei Kraftwerk a un riff di chitarra in stile Clash.

E questo è il risultato. Grezzo, ci si può lavorare, ma è il primo output che ha generato.

Ovviamente le competenze musicali non potranno essere mai sostituite, ma già oggi con l’IA si possono generare basi audio da utilizzare per spot, video o canzoni.

In pochi secondi e solo scrivendo un prompt.

Già che c’ero ho creato anche la copertina della canzone: Un ritratto di Joe Strummer dei The Clash vestito con l’iconico abito rosso e nero dei Kraftwerk.




 

Gameverso.

«Il Metaverso non esiste.» scrive James Whatley su The Drum. O meglio, il Metaverso esiste da molto prima che Facebook ne monopolizzasse il dibattito.

«Gli spazi virtuali online in cui le persone si ritrovano per realizzare cose insieme esistono da decenni» continua Whatley «E se chiamiamo le cose per quello che sono, queste cose sono videogiochi. Giochi. Game. Gamers. Non sono parole proibite. È giusto dirle ad alta voce. Non dovrebbero essere parole proibite nell’ambito del marketing (anche se il metaverso dovrebbe essere vietato).»

Ed è vero, i Brand che si spostano sul Metaverso non possono ignorare le dinamiche del Gaming, un mercato che complessivamente vale 146 miliardi di dollari (con una stima di 220 miliardi entro la fine dell’anno), mentre il Cinema ne vale 42 e la Musica 20. Il Gaming è il passato, il presente e il futuro del Metaverso.

Un esempio in questa direzione è la Gucci Academy. Una campagna integrata che unisce Gaming e formazione:

«Created by Gucci & FACEIT, the Gucci Gaming Academy, is a program designed to support the development of up-and-coming gaming talent and help accelerate their path to pro. Beginning with CS:GO, exceptional players will be handpicked from the FPL, FPL Challenger and FACEIT Matchmaking System. Players will receive full-time mentorship from coaches, mental health support, world-class hardware and access to many other programmes which help enhance in-game performance and well-being. The Gucci Gaming Academy programme will strive toward supporting aspiring talent and empowering them to be signed to a professional team.»

In quest’ottica il Metaverso potrebbe essere uno dei futuri del marketing. Differente (e sbagliato) è pensare che il Metaverso è il futuro in senso assoluto e che impatterà su qualsiasi settore. Tanto che secondo un sondaggio il 58% degli americani ha dichiarato che l’idea di un Metaverso non li spaventa né li entusiasma per il futuro. Tuttavia, il 32% degli intervistati è più spaventato che entusiasta, contro il 7%. Secondo uno studio di Product Sup inoltre il 60% dei consumatori non ha alcun interesse per lo shopping virtuale nel Metaverso.




 

L’importanza dello straordinario.

Grazie a internet, abbiamo musica, cinema e informazioni a una portata di click. E ci sembra normale. Quando invece è tutt’altro che normale. È straordinario. Ogni volta che facciamo una ricerca su internet, ogni volta che parliamo in video conferenza con una persona dall’altra parte del mondo, ogni volta che viene scoperta una nuova medicina per curare un nuovo male, ogni volta che un pozzo d’acqua viene aperto in una regione remota dell’Africa centrale, bisognerebbe fermarsi e mettere a fuoco lo stupore del cambiamento.

Si dovrebbe vivere ogni giorno con gli occhi del fanciullino di Pascoli che scova la “maraviglia” in ogni dove per cogliere lo straordinario nell’ordinario. La meraviglia è l’origine del pensiero creativo, persino la filosofia (Iride), secondo l’accezione raccontata da Platone nel dialogo Teeteto, è figlia della meraviglia (Taumante). Invece la direzione sembra quella opposta. Scivolare dall’impensabile al quotidiano dimenticandosi dello straordinario e dello stupore. Questo è il rischio maggiore del cambiamento: intendere il cambiamento come qualcosa di passivo. Subirlo o, semplicemente, trasformarlo in routine. Al contrario, all’interno della formula stessa di cambiamento sono contenuti concetti quali la visione, l’insoddisfazione per lo status quo e la creazione di nuovi processi fisici e mentali. Il cambiamento prevede una necessaria partecipazione attiva o, meglio, proattiva.

Dobbiamo fare nostra la fatica d’immaginare il cambiamento, sforzarci di pensare a come sfruttare il cambiamento per generare altro cambiamento.

Dobbiamo fare nostra la fatica d’immaginare il cambiamento, sforzarci di pensare a come sfruttare il cambiamento per generare altro cambiamento. Impegnarci nel tendere sempre verso lo stupore. Non possiamo dimenticare com’era il mondo prima del cambiamento, sia esso un cambiamento positivo o negativo. Perché è il passato che ci permette di meravigliarci del futuro. È un rapporto necessariamente dialettico. Se ogni tanto non guardiamo al passato e diamo per scontato il futuro, finiremo per non accorgerci più di quello che ci sta davanti.




 

Appunti sul Web 3.0.

Il Web 3.0 spiegato in un tweet:

Web1:
Le aziende creano contenuti.
Le aziende guadagnano soldi.

Web2:
Le persone creano contenuti.
Le aziende guadagnano soldi.

Web3:
Le persone creano contenuti.
Le persone guadagnano soldi.

Un estratto da un articolo:

Un nuovo modo di pensare alla proprietà sta entrando in collisione con la nuova tecnologia. Siamo sull’orlo della terza era del web. La prima riguardava l’informazione che scorreva liberamente: basta pensare a Google, che ci dava accesso alla conoscenza del mondo. La maggior parte di noi era un consumatore passivo. La seconda era è stata il social web: Facebook, Instagram, Twitter. La gente ha cominciato a creare i suoi contenuti, e questi contenuti sono diventati la linfa vitale delle grandi piattaforme. Siamo diventati partecipanti attivi, ma le piattaforme hanno divorato tutti i profitti. La promessa di internet era di eliminare le autorità. Invece di aspettare che una casa discografica ti metta sotto contratto, potevi condividere la tua musica su Spotify. Invece di chiedere a un giornale di condividere le tue parole, potevi twittarle. Però queste piattaforme sono diventate le nuove autorità. La terza epoca del web consiste nel raddrizzare la nave. Il capitale sociale diventa capitale economico. Il valore non si accumula più nelle mani di mediatori e intermediari. Quest’epoca economica significa che tutti possono investire in arte, in canzoni iconiche e in personaggi pubblici in cui credono. Non saranno le minoranze a modellare la cultura, ma le maggioranze. La cultura popolare sarà finalmente degna del suo nome.

Un estratto da una newsletter:

Web 1.0:
La prima iterazione del web, dal 1991 fino ai primi anni del 2000. Il web era composto prevalentemente da testi e immagini, i contenuti venivano creati principalmente dai developer (o comunque da persone con competenze tecniche) e la grande maggioranza dei “naviganti” (mi piace un sacco questa parola ma mi sa che è una mega boomerata) erano consumatori passivi di contenuti. Poca interattività, file statici, no database.

Web 2.0:
È il web da inizio anni 2000 ad oggi, quello che conosciamo tutti, il Web2. Entrano in gioco i social, l’interattività, i contenuti animati e complessi, il passaggio del web da esperienza passiva ad attiva, dove l’utente è anche creator (e non serve più essere dei tecnici per contribuire alla creazione del web). È il web dei blog, di Instagram, di YouTube, con due limiti: 1) Monetizzazione: tutti questi bellissimi tool sono dei prodotti, e se sono gratis, come già avrete sentito, il prodotto siete voi (e i vostri dati). Nel web2 da una parte c’è qualcuno che deve monetizzare, dall’altra qualcuno che deve pagare. 2) Sicurezza e privacy: va da sé che se i vostri dati sono il prodotto in vendita, rimane un margine sempre più risicato per sicurezza e privacy. E il controllo di questi dati non è in mano agli utenti, ma in mano alle aziende che li hanno acquisiti, di cui gli utenti fondamentalmente si devono fidare.

Web 3.0:
Il web3 nasce per superare i limiti del web2 (sia la dicotomia owner/user, sia la maggiore attenzione per sicurezza e privacy). Le parole chiave del web3 sono ownership e decentralizzazione. Il web3 è più sicuro, distribuito, auto-governato. È un cambiamento di paradigma: si passa da un mondo nel quale esiste una distinzione netta tra proprietario — owner — e utilizzatore — user —, ad un mondo nel quale gli user diventano anche contemporaneamente owner di ciò che producono. C’è universalità e trasportabilità: l’utente ha una presenza unica sul web – i propri asset, i token, la propria identità, sono unici e vengono riconosciuti ovunque nel web3, senza dover creare un’identità o un profilo nuovo su ogni piattaforma.

Uno schema:

Una modalità di accesso:

Un grafico:




 

George Lucas e l’importanza di mettere tutto a profitto.

Quando la 20th Century Fox comprò i diritti di Star Wars, chiese a George Lucas di dirigere il film per 500.000 dollari. Ma invece di accettare, Lucas propose ai manager della casa di produzione di tenere il suo salario più basso, 150.000 dollari, in cambio di due clausole: avere tutti i diritti sul merchandising e quelli sugli eventuali sequel del film. A quei tempi, nessun manager avrebbe scommesso su possibili sequel di un film che parlava di astronavi e guerre intergalattiche, e il merchandising non era ancora una grande fonte di ricavi.

Così accettarono e Lucas firmò il contratto. Come tutti sappiamo Star Wars è stato un successo senza precedenti, ma il vero guadagno per George Lucas non arrivò dal botteghino, ma da tutto il resto: merchandising, musica, sequels, giochi, dvd, vhs, libri, fumetti, vestiti, licensing e qualsiasi prodotto marchiato Star Wars.

Se non avesse chiesto di tenere i diritti, avrebbe comunque ricevuto un buono stipendio come regista ma sarebbe stato nulla in confronto a quanto ha guadagnato come imprenditore. Di fatto Lucas ha barattato una parte del suo stipendio fisso, 350.000 dollari, con dei diritti che negli anni gli hanno fruttato quasi 5 miliardi di dollari. Seguendo l’esempio di George Lucas, quando stai pensando a come rendere il tuo lavoro profittevole, non guardare in una sola direzione ma pensa a tutti i modi in cui il tuo lavoro potrebbe generare introiti.




 

Netflix e i Golden Globe.

Sono uscite le nomination ai Golden Globe 2021 (le puoi leggere qui) e Netflix ha ottenuto 42 nomination, ovvero il 35% del totale e tre volte in più rispetto a qualsiasi altro network o casa di produzione. La trovo una notizia interessante per tre motivi: 1) Puntare sulla qualità dei contenuti è una strategia che premia (nel vero senso della parola in questo caso…). 2) Il modello di business del cinema (così come quello della musica) è uno di quelli che si sta adattando più in fretta e con maggior successo ai cambiamenti del mercato. 3) La storia si ripete e i monopoli anche. Negli anni Quaranta, quando il cinema si stava re-inventando, più del 50% del mercato delle sale cinematografiche era in mano a solo 5 aziende. Oggi sta succedendo lo stesso con lo streaming.




 

Follie concrete.

“Sono uno con i piedi ben ancorati a terra. Solo che non su questa terra.”
– Karl Lagerfeld

Settimana scorso ho seguito con molto interesse la quotazione in borsa di Airbnb. Seguo (e studio) il modello di business di aziende come Airbnb da diversi anni, trovi alcuni dei risultati dei miei studi nel mio libro del 2016 “L’Impresa Concentrica” (di cui puoi scaricare un riassunto qui) e penso che Airbnb sia una delle aziende più folli e, al contempo, concrete che esistano oggi.

Pensaci, Airbnb è nata durante la crisi economica del 2008. Una follia. Airbnb ha creato la più grande catena di “alberghi” al mondo senza possedere alcun albergo (e nessuna competenza nel settore alberghiero). Una follia. E adesso, durante la più grande crisi dal dopo guerra (soprattutto per il settore di riferimento di Airbnb, il turismo) si quota in borsa. Una follia.

Eppure Airbnb è la riprova di quanto sosteneva Larry Page: le buone idee sono sempre folli, fino a quando non lo sono più.

Ed effettivamente non potrebbe esserci momento migliore di questo per fare qualcosa di folle (e allo stesso tempo concreto), perché durante una crisi, come quella che stiamo vivendo, le persone non smettono di fare le cose che facevano prima ma le fanno diversamente, e le aziende che, come Airbnb, fanno le cose diversamente hanno più probabilità di avere successo e di convincere il mercato.

Ti faccio qualche esempio:

  • Le persone non hanno smesso di spendere ma spendono in maniera differente e infatti Klarna è la startup europea più finanziata.
  • Le persone non hanno smesso di fare riunioni ma le fanno in maniera differente (e continuiamo a farne troppe) e infatti Zoom è la iPad App of the Year.
  • Le persone non hanno smesso di allenarsi ma lo fanno in maniera differente e infatti Wakeout! è la iPhone App of the Year.
  • Le persone non hanno smesso di ascoltare musica, ma lo fanno in maniera differente e infatti Spotify ha superato i 300 milioni di utenti.
  • Le persone non hanno smesso di guardare film ma lo fanno in maniera differente e infatti Netflix sta ridisegnando il cinema.
  • Le persone non hanno smesso di giocare in squadra ma lo fanno in maniera differente e infatti Call of Duty ha superato i tre miliardi di dollari di prenotazioni.

Le persone non smetteranno di viaggiare ma lo faranno in maniera differente e infatti, nonostante il Covid, l’IPO di Airbnb è stato un successo che ha permesso ai suoi tre fondatori di raggiungere un patrimonio netto di 10 miliardi di dollari (ciascuno) e a Sequoia Capital, che nel 2009 aveva investito 585.000 dollari, di guadagnare 12 miliardi di dollari. Non male per un Side Project nato per pagarsi l’affitto. E pensare che nel 2008 con 150.000 dollari si poteva avere il 10% di Airbnb (ciò nonostante 7 investitori della Silicon Valley su 7 hanno declinato l’offerta…). Oggi quel 10% varrebbe circa 10 miliardi.




 

Esperienze analogiche.

Ascoltare musica via Spotify è più economico e più comodo rispetto a un vinile. Leggere e-Book è più economico e più comodo rispetto a un libro cartaceo. Vedere film in streaming è più economico e più comodo rispetto ad andare al cinema. Il digitale, rispetto all’analogico, ha molti vantaggi. Ma su una cosa l’analogico vincerà sempre: l’esperienza.

Vedere un film al cinema è un’esperienza molto diversa da vedere un film su Netflix. Anche se il film è lo stesso, la percezione che ne abbiamo, il modo in cui lo vediamo cambia. E cambia di molto. È, appunto, un’esperienza completamente diversa. E questo vale anche per un libro, un album, un evento o per qualsiasi altro prodotto o servizio che può essere proposto anche in versione digitale. Quello che acquistiamo non è il prodotto ma l’esperienza che ci permette di vivere.




 

Reinventare la concentrazione.

Viviamo all’interno di un ecosistema di distrazioni (notifiche, messaggi, mail, pubblicità, musica, video…) che ci portano a disperdere i nostri pensieri, indebolire la nostra memoria e ci rendono costantemente tesi e ansiosi.

All’interno di questo contesto, trovare lo spazio mentale per concentrarsi e organizzare i pensieri è sempre più difficile, ma, proprio per questo motivo, sempre più importante.

Forest è una app che permette di piantare un albero ogni volta che vogliamo concentrarci. Se riusciamo a rimanere concentrati per almeno 30 minuti l’albero crescerà. Se invece cediamo alle distrazioni l’albero morirà.




 

Il futuro sarà dicotomico.

Da questa settimana sulla mia newsletter comincio una nuova rubrica. Ogni settimana condivido un’idea e uno (o più) casi per innovare o lanciare un nuovo business (argomento che ormai tratto da diversi anni e che mi affascina molto).

Ma come? Ti starai chiedendo, inizi una rubrica sull’innovazione dei modelli di business con un prodotto, il Billboard, vecchio come il mondo (della pubblicità)? Eh sì, inizio con il Billboard perché penso che il futuro sarà sempre più “dicotomico”.

Penso che un domani vinceranno i business polarizzati. Ho fatto l’esempio del Billboard non a caso. Il grafico che trovi qui sotto, indica le previsioni di crescita del settore Advertising per il 2018 (è un po’ datato ma è significativo). Gli unici due canali in crescita sono il digitale e l’OOH, ovvero i vecchi cartelloni pubblicitari (i Billboard).

Lo stesso vale per altri business, come per esempio la musica, dove i due formati più in crescita sono lo streaming e il vinile. Ovvero due formati diametralmente opposti. Un formato totalmente digitale, lo streaming, per un consumo veloce, comodo e di massa. E un formato totalmente analogico, il vinile, per un’esperienza autentica, profonda e unica.

In futuro (un futuro molto presente) penso che sceglieremo così. Sceglieremo di investire in esperienze che valgono o in prodotti di qualità. Oppure sceglieremo di consumare prodotti a buon mercato che già quando li compriamo sappiamo che cambieremo presto. Quello che c’è nel mezzo rischierà di uscire dal mercato.

Del resto, come diceva Bill Cosby, non so quale sia la chiave del successo, ma quella del fallimento è cercare di piacere a tutti.

PS: L’immagine dei Billboard in bianco e nero è presa dal film, che ti consiglio, “They Live” del 1988 scritto e diretto da John Carpenter.




 

Benjamin Franklin e l’importanza di coltivare i propri hobby.

Benjamin Franklin è stato uno degli uomini più prolifici e poliedrici della storia degli Stati Uniti. Grazie a un raro miscuglio di Puritanesimo e Illuminismo riuscì a strappare lo scettro ai tiranni e il fulmine al cielo. Come politico e attivista è stato tra i protagonisti della Rivoluzione americana. Mentre come inventore e scienziato ha inventato il parafulmine, le lenti bifocali, l’armonica a bicchieri e le pinne.

Nonostante la sua intensa attività professionale, riuscì sempre a ritagliarsi il tempo per coltivare i suoi molti hobby (tra cui la lettura, il nuoto, gli scacchi, la musica, la filosofia, la scienza e la politica). E furono proprio questi hobby che gli permisero di eccellere e distinguersi in tutte le sue attività. Ti ho raccontato la storia di Benjamin Franklin perché, indipendentemente da quale sia il tuo lavoro, avere degli hobby e dedicargli del tempo, ti darà la possibilità di avere nuove idee, vedere il tuo lavoro da diversi punti di vista e stimolare il tuo lato creativo.

Il modo migliore per coltivare un hobby è trasformarlo in un business dandogli una sostenibilità economica e una struttura organizzativa.

Da qualche anno sento parlare sempre più spesso di “Sidepreneurism”, ovvero trasformare un’attività parallela al proprio lavoro (“side hustle”) in un’impresa (“enterprise”) che genera profitti e che, un domani, potrebbe diventare un lavoro a tempo pieno.

Avere un’attività parallella ha molti vantaggi. È un ottimo paracadute nel caso il tuo lavoro principale non funzioni, stimola la creatività e ti permette di avere un’entrata in più a fine mese.

Su Internet trovi molte piattaforme che ti permettono di trasformare un tuo hobby in un business (tempo fa con un paio di amici avevo lanciato questa).




 

George Gershwin e l’importanza di essere unici.

“Punta ad essere unico, non migliore. Creare valore, non battere i rivali è al cuore della competizione.”
– Michael Porter

Sebbene oggi sia ritenuto un genio indiscusso del jazz, agli inizi della sua carriera George Gershwin era uno dei tanti studenti di musica alla ricerca della propria strada. Essendo un appassionato di Ravel, un giorno prese un volo per Parigi con un obiettivo chiaro in testa: conoscere il compositore francese, convincerlo a fargli da maestro e diventare bravo come lui. Tuttavia quando i due musicisti s’incontrarono, Ravel rifiutò l’offerta e disse a Gershwin: «Perché vuoi essere un Ravel di seconda classe quando puoi essere un Gershwin di prima classe?».

Così il giovane musicista americano tornò negli Stati Uniti e cominciò a lavorare a un proprio stile distintivo che diventò poi il suo marchio di fabbrica. Quando ti metti in proprio non puntare ad essere il migliore in qualcosa che qualcuno ha già fatto, punta ad essere l’unico in qualcosa che nessuno ha ancora fatto. Concentrati su di te e su quello che vogliono i tuoi clienti, e capisci su come valorizzare al meglio le tue caratteristiche distintive. Perché se punti ad essere il migliore ci potrà sempre essere qualcuno migliore di te, se invece punti ad essere l’unico, non avrai mai concorrenti.

Secondo il guru della strategia moderna Michael Porter esistono due vie per conseguire un vantaggio competitivo, l’efficacia operativa che ha come fine quello di essere i migliori sul mercato e la strategia che ha come fine quello di essere unici.

La prima via – l’efficacia operativa – si potrebbe riassumere nel fare quello che fanno i competitor cercando di farlo meglio con il fine di raggiungere quella che Porter chiama la productivity frontier intesa come lo stato di best practice, il massimo valore che, in teoria, un’azienda può creare utilizzando i macchinari più evoluti, la tecnologia più all’avanguardia, i sistemi informativi più avanzati, puntando dunque al meglio del meglio, senza ovviamente smettere mai di apprendere e migliorarsi. Sebbene questa via incrementi sensibilmente l’operatività della nostra azienda, nel lungo periodo potrebbe portare molte imprese verso il fallimento perché le best practices sono velocemente imitabili e tendono quindi verso una convergenza competitiva dove tutte le aziende operano nello stesso modo con lo stesso fine.

La seconda via invece – la strategia – si traduce nel creare un proprio vantaggio competitivo unico, sostenibile e inimitabile che può essere raggiunto optando per attività differenti rispetto ai nostri competitor oppure per attività simili ma sviluppate in modi differenti.




 

Cosa fare quando siamo a casa.

Stiamo vivendo giorni fuori dall’ordinario dove tutto è ancora più complesso, incerto e precario di quanto già lo fosse prima. Tuttavia, in questi giorni abbiamo la possibilità di testare un nuovo modo di vivere.

Un modo di vivere dove siamo obbligati a fare meno, meglio. A fare meno riunioni, ma più operative, a fare meno lavori ma essere più produttivi, a fare meno spostamenti, ma più mirati, e a fare meno incontri, ma più significativi.

In questo periodo siamo obbligati a scegliere la qualità rispetto alla quantità. E questo è un ottimo esercizio che spero ci aiuterà a cambiare le nostre abitudini anche quando l’ondata di panico da Covid-19 sarà passata.

Spero che saremo più consapevoli dell’importanza del nostro tempo (e di quello degli altri) e più consapevoli dell’impatto che le nostre abitudini hanno sul pianeta.

Spero che riusciremo a prenderci più tempo per noi, più tempo per coltivare le nostre passioni, più tempo per stare con le persone che amiamo. Spero che (ri)impareremo ad aspettare. Spero che ci renderemo conto che siamo tutti uguali di fronte alla fragilità dell’essere umano. E spero anche che ogni volta che dovremo prendere la macchina o l’aereo ci domanderemo se è proprio necessario prenderlo. Se non esiste un modo alternativo per risparmiare tempo e inquinare di meno.

Ma, nel frattempo, siamo bloccati in casa. E, chi come me ha figli, è bloccato in casa con i propri figli. Per rendere anche questa situazione, un’opportunità per crescere, dedico la mia newsletter di oggi a una serie di attività che si possono fare da casa.

01. APP PER MIGLIORARSI:
Stare a casa, vuol dire avere più tempo per sé, e questa è un’ottima occasione per investire sulla propria crescita personale e professionale.

Headspace per meditare.
Masterclass per imparare materie diverse dai migliori al mondo.
Coursera o Teachable per seguire corsi on line.
Duolinguo per imparare una nuova lingua.
Bodytime o Onyx per allenarsi a casa come in palestra.
7 Minute Workout per un allenamento più lieve ma costante.
Zenia invece per fare yoga con un assistente virtuale.

02. APP PER LANCIARE UN SIDE PROJECT:
Normalmente non abbiamo mai tempo per lavorare a quel progetto che teniamo nel cassetto da anni. Seguendo l’esempio di Bertrand Russell, questo potrebbe essere il momento per farlo.

Appsheet per costruire app senza saper programmare.
Gumroad per vendere on-line le tue creazioni digitali.
Esty per per vendere prodotti artigianali.
Shapeways per vendere i tuoi prodotti stampati in 3D.
Anchor o WordPress per aprire il tuo blog.
Shopify per aprire il tuo negozio on line.
Anchor per registrare il tuo podcast.

03. ATTIVITÀ DA FARE CON I BAMBINI A CASA:
Ho due bimbi piccoli e, con le scuole chiuse, è un’ottima occasione per passare del tempo insieme. Queste alcune attività che si possono fare con i propri figli:

Ristrutturare vecchi giochi.
Io ho tirato fuori dalla cantina i miei vecchi Lego e li stiamo ricostruendo. Puoi farlo con i tuoi vecchi giochi. Se anche tu scegli i Lego su BrickLink trovi tutti i set prodotti dalla Lego.

Fare esperimenti.
Su Internet si trovano molti video su possibili esperimenti di chimica che si possono fare in casa con i propri figli. Qui ne trovi un po’. Qui ne trovi altri. E qui altri.

Leggere storie.
Leggere è una delle attività che preferisco fare con i miei figli. Storie lunghe, corte, scritte o inventate. Se si ha tempo per farlo, leggere è la cosa migliore da fare insieme.

Inventare storie.
Oltre a leggerle, le storie possono anche essere inventate. Si parte dai personaggi poi a turno si inventano parti della storia. La storia si può poi registrare e trasformare in un audio racconto. Oppure si può disegnare. Oppure scrivere e poi stampare.

Fare laboratori.
Suonare musica insieme. Disegnare insieme. Fare costruzioni insieme. Cucinare insieme. Fare origami o collage insieme. Costruire case, barche o castelli con i cuscini. Con i bambini ogni attività è un laboratorio.

Guardare film.
Tra Netflix, PrimeVideo e NowTv ci sono film per bambini molto belli. Per esempio: Bon Voyage, Charlie Brown (PrimeVideo), Cattivissimo Me (PrimeVideo), il Gruffalo (PrimeVideo), oppure su Netflix le serie Shaun Vita da Pecora, Curioso George, Il magico scuolabus riparte o Simone.

04. FILM / SERIE / DOCUMENTARI DA VEDERE.
I cinema sono chiusi. E questo è un dramma. Su Netflix e PrimeVideo ci sono però molti film, documentari e serie da vedere.

Film.
Tra i film che ci sono su Netflix ti consiglio: Whiplash, The King’s Speech, The Dictator, The Departed, Blade Runner (The Final Cut) + Blade Runner 2049, Interstellar, Catch me If You Can, Her, Unbreakable, In guerra per amore. Su PrimeVideo invece, Il Concerto, The Commitments, Rocketman, Darkest Hour, Margin Call, J. Edgar, The Heartbreak Kid, Across The Universe, The Master, Come un Tuono, LA Confidential, The Fighter, Si muore tutti democristiani, Dogman, Boyhood, Nebraska, Almost Famous.

Serie.
Tra le serie che ci sono su Netflix ti consiglio: Narcos, The Kominsky Method, Explained e The mind Explained, Stranger Things, Black Mirror, Trotsky, La casa di carta e Breaking Bad. Su NowTv invece Chernobyl, True Detective, Gomorra, Gli otto giorni che fecero Roma e Manhattan (anche se hanno cancellato la serie dopo due stagioni…). Su PrimeVideo infine, Fleabag, The Man In The High Castle, Jack Ryan, The Marvelous Mrs. Maisel e Mr Robot.

Documentari.
Tra i documentari che ci sono su Netflix ti consiglio: Minimalism, FYRE, Behind The Curve, The Edge Of Democracy, Cowspiracy, Genius Of The Modern World e Genius Of the Ancient World, Inside Jobs.

05. LIBRI DA LEGGERE.
E poi potresti leggere. Qui trovi un po’ di libri che ho letto con le mie note. Se invece hai poco tempo e vuoi leggere solo i concetti fondamentali di ogni libro, puoi provare la app Blinkist oppure Brainfood.




 

Bob Dylan e l’importanza di cambiare.

Nel 1965 Bob Dylan è riconosciuto da tutti come il riferimento della musica folk americana grazie al successo dei suoi primi quattro album. Il 25 Luglio di quell’anno, il cantautore americano partecipa per il terzo anno consecutivo al Newport Folk Festival ma, a differenza delle due volte precedenti, si esibisce con l’accompagnamento di un gruppo e, soprattutto, sostituisce la sua chitarra acustica con una elettrica.

Il pubblico che si aspettava un’esibizione folk contesta Dylan e la sua scelta. Nonostante le critiche, però, il passaggio alla chitarra elettrica segna una svolta nella sua carriera. Sempre nel luglio del 1965 esce, infatti, il singolo “Like a Rolling Stone”, che arriva al secondo posto della classifica americana e al quarto di quella inglese e che nel 2004 la rivista Rolling Stone ha classificato al primo posto tra le cinquecento migliori canzoni di tutti i tempi.

Se Bob Dylan avesse continuato a fare Folk, non avrebbe rischiato e magari avrebbe continuato ad avere successo nella nicchia di amanti del genere. Ma ha rischiato, ha avuto l’audacia di cambiare ed è diventato Bob Dylan. Cambiare non è facile e spesso non è neanche necessario, ma è l’unico modo di avere la certezza di continuare a crescere e a evolversi.




 

Bo Diddley è l’importanza di metterci la faccia.

Ellas Otha Bates McDaniel inizia a lavorare come camionista e poi come pugile. Ma la sua passione è da sempre la musica. Aveva già provato a suonare in qualche gruppo, ma non aveva funzionato. Agli inizi degli anni ’50 decide di riprovarci e questa volta vuole metterci tutto se stesso. Cambia il proprio nome in Bo Diddley e nel 1955 pubblica il suo primo singolo che porta il suo nome e racconta la storia di un cantante e del suo lavoro. Il singolo divenne un successo immediato negli Stati Uniti e raggiunse la vetta della classifica R&B restando in classifica un totale di 18 settimane.

Questo è quello che succede quando facciamo qualcosa mettendoci la faccia, quando firmiamo il nostro lavoro. Se facciamo qualcosa in prima persona, qualcosa in cui crediamo e che ci rappresenta siamo molto più coinvolti. Non è semplicemente un lavoro o un progetto. Ma è il nostro lavoro e il nostro progetto. È il più delle volte si traduce in un successo.




 

Crisi e opportunità.

La musica esiste da migliaia di anni. Eppure nessuno era riuscito a metterla a profitto trasformandola in un canale pubblicitario prima di Shazam e Spotify. Anche le relazioni tra persone esistono da sempre, eppure nessuno era riuscito a trasformarle in un business da miliardi di dollari prima di Facebook e degli altri Social Network. Oppure pensa alle macchine. L’uomo viaggia da solo in auto da più di cento anni. Eppure nessuno era riuscito a trasformare i posti vuoti in un profitto prima di BlaBlaCar. Per non parlare di Airbnb che ha messo a profitto le case vuote – che esistono da migliaia di anni. Viviamo in un’epoca di straordinari cambiamenti. Tecnologici, sociali e culturali. Qualcuno la chiama crisi. Io preferisco chiamarla opportunità. Opportunità di sperimentare. Opportunità di innovare. Ma soprattutto, opportunità di vedere tutto quello che ci circonda da un altro punto di vista.




 

Nel lungo periodo i secondi arrivano sempre primi.

Nella storia della musica, il 14 agosto 1995 è ricordato come il giorno della battaglia delle band, quando le due più importanti band britanniche degli anni Novanta – i Blur e gli Oasis – uscivano in contemporanea con il loro nuovo singolo. All’inizio, sono i Blur a vincere la battaglia ma, nel lungo periodo gli Oasis venderanno molti più dischi e terranno, l’11 agosto 1996 a Knebworth, il più grande concerto a pagamento della storia. Spesso arrivare primi non è garanzia di successo, anzi è vero il contrario. Se pensiamo alla tecnologia, la storia è piena di secondi che si sono poi imposti come primi. Yahoo è arrivato prima di Google. Hotmail è arrivata prima di Gmail. Messenger è arrivato prima di Skype che è arrivato prima di Whatsapp. Così come MySpace è arrivato prima di Facebook e Nokia prima di Apple. Qualsiasi cosa tu stia pensando di fare, è verosimile che sul mercato ci sia già un player che propone il tuo stesso prodotto o servizio. Ma questo non deve essere un pretesto per rinunciare. Anzi, è un’occasione per imparare dagli errori degli altri e offrire qualcosa di migliore o diverso che possa, nel lungo periodo, essere più sostenibile.

In quest’ottica cominciare troppo presto è peggio che cominciare troppo tardi.

Torniamo ancora al mondo dell’imprenditoria. Già nel 2006, il mercato del Cloud Storage era popolato da oltre 80 aziende che proponevano servizi di conservazione dati su computer in rete, tuttavia questo non dissuase Drew Houston dal progettare e lanciare nel 2007 Dropbox. La storia vuole che quando un investitore gli chiese per quale motivo avesse dovuto investire nell’ennesimo servizio di Cloud Storage, Houston gli domandò quanti di quei servizi usasse, e l’investitore dovette ammettere che effettivamente non ne usava neanche uno. Non perché non funzionassero, ma perché nessuno funzionava come Dropbox. Tanto che nonostante la presenza di giganti come Apple, Microsoft e Google, il servizio di Houston è leader di mercato nel Business To Business.




 

La necessaria fatica di essere creativi ai tempi dell’AI.

«Se io dipingo un cavallo selvaggio, magari non vedrete il cavallo ma senz’altro vedrete il selvaggio.» diceva Pablo Picasso, ed effettivamente l’artista spagnolo aveva questa capacità: ritrarre l’invisibile.

L’intelligenza Artificiale non è ancora a questo livello, ma tanto sul disegno quanto sulla creatività già oggi è in grado di raggiungere risultati straordinari.

Software basati su Intelligenza Artificiale possono scrivere barzellettearticoli, storie o brevi sceneggiature di film, creare immagini, comporre musica e forse, un domani neanche troppo lontano, saranno in grado di ritrarre anche loro quel che non si vede.

L’esempio più straordinario sono le Generative Adversarial Networks (GANs) e, in particolare, progetti come DALL-E 2, un sistema basato su Intelligenza Artificiale che può creare immagini realistiche partendo da una descrizione testuale.

In pratica basta dirgli: “Disegna un astronauta a cavallo in uno stile fotografico” e lui genera un’immagine come quella che vedi qui sotto.

Quindi? È l’inizio della fine dei lavori creativi? No, però è sicuramente l’inizio di un nuovo paradigma di creatività dove la macchina avrà un peso sempre maggiore.

Il punto è capire se noi, come umani creativi, vogliamo essere al servizio delle macchine o vogliamo servirci delle macchine. Se come ci auguriamo, opteremo per la seconda strada (servirci delle macchine) allora sarà essenziale valorizzare la nostra creatività e puntare sulla qualità e non sulla quantità.

Dovremo fare lo sforzo di andare più in profondità, di evitare testi o idee “copia/incolla”, di stare più a lungo sui problemi, di trovare soluzioni e di fare collegamenti tra discipline anche molto distanti tra di loro.

Del resto l’essenza della creatività umana è proprio questa: pensare che, non a caso, in latino si dice cogito, ovvero “cum-agito”, agitare insieme, mischiare cose, operare contemporaneamente su differenti piani e, soprattutto, essere in grado di connetterli tra di loro.

L’essenza della creatività umana è proprio questa: pensare che, non a caso, in latino si dice cogito, ovvero “cum-agito”, agitare insieme, mischiare cose, operare contemporaneamente su differenti piani e, soprattutto, essere in grado di connetterli tra di loro.

Il futuro della creatività dunque non riguarda quali tecnologie avremo ma come le utilizzeremo. Se utilizzeremo la tecnologia in modo attivo e innovativo, allora le macchine saranno uno strumento al nostro servizio. Se invece la useremo in maniera pigra e passiva, allora noi umani diventeremo uno strumento al servizio delle macchine.




 

Corrente #21: Effetto Dunning-Kruger.

Billy McFarland è il classico ragazzo che vuole fare più soldi possibile nel minor tempo possibile con un’innata capacità di vendere di tutto, anche quando non ha nulla da vendere. Nel 2017 organizza FYRE un “luxury music festival” in un’isola, un tempo proprietà di Pablo Escobar, con l’idea di dare ai propri clienti la possibilità di vivere un’esperienza unica fatta di musica, party e natura incontaminata. Il problema è che né lui né il suo socio, il rapper Ja Rule, hanno idea di come si organizzi un festival. Ma ai tempi di Instagram cosa importa della sostanza? Basta l’apparenza. Così invitano delle modelle sull’isola e cominciano a postare foto su Instagram. Il progetto diventa virale, centinaia di Influencer lo supportano e migliaia di persone si iscrivono. Risultato: il Festival non avrà mai luogo, migliaia di persone e centinaia di lavoratori vengono truffati e Billy McFarland viene condannato a sei anni di prigione con l’accusa di aver messo in piedi una truffa da 27 milioni di dollari.

Come dice una delle persone intervistate nel documentario che racconta questa incredibile vicenda, “Fyre ha portato alla vita Instagram”, e ha messo in luce come ci sia una distanza sempre maggiore tra quello che si racconta sui Social Media e quella che è la realtà. Uno dei tratti più interessanti di questa storia è che fino all’ultimo, anche di fronte allo sfacelo del suo progetto, Billy continuasse a rassicurare tutti dicendo: «State tranquilli il Festival comincerà a breve!» con una convinzione tale che è difficile capire se stesse mentendo o se avesse davvero perso cognizione di quale fosse la realtà dei fatti.

Oggi voglio parlati dell’effetto Dunning-Kruger, una distorsione cognitiva che porta le persone poco esperte a sopravvalutare le proprie abilità considerandosi esperte, mentre le persone molto esperte a sottovalutarsi e considerarsi non abbastanza esperte. Inutile dire che Billy McFarland ricade nella prima categoria.

Effetto Dunning-Kruger: Distorsione cognitiva secondo cui persone poco esperte tendono a sopravvalutare le proprie abilità considerandosi esperte, mentre persone molto esperte tendono a sottovalutarsi e considerarsi non abbastanza esperte.

Nel suo saggio, Fiducia e paura nella città, il sociologo Zygmunt Bauman parla della paura di essere inadeguati, come di quello snervante senso di insicurezza dato dal verificarsi simultaneo di due svolte: 1) la sopravvalutazione dell’individuo, liberato dalle costrizioni imposte dalla fitta rete dei vincoli sociali; 2) la fragilità e la vulnerabilità senza precedenti di quest’individuo, ormai privo della protezione che quei vincoli gli offrivano in passato. Se la prima rivela agli individui l’eccitante, seducente esistenza di grandi spazi, in cui attuare la fondazione e il miglioramento di se stessi, la seconda rende la prima inaccessibile alla maggior parte di loro. In un presente senza «una carriera chiaramente delineata, senza la noiosa ma rassicurante routine, senza la stabilità dei gruppi di lavoro, senza la possibilità di sfruttare a lungo le capacità acquisite una volta per tutte e il grande valore accordato all’esperienza lavorativa che consentivano di tenere a distanza i rischi del mercato del lavoro e di attenuare l’incertezza», saremo in grado di immaginarci un nostro equilibrio?

Trovare questo equilibrio penso sia una delle grandi sfide del nostro tempo. Bilanciare la nostra pulsione di fare nuove cose (dopata dai Social Media e dalle tante possibilità, più o meno reali, che abbiamo oggi) con la paura di essere inadeguati (accentuata dal bombardamento di punti di riferimento con cui ci dobbiamo confrontare ogni giorno). Oggi dobbiamo avere abbastanza sicurezza in noi stessi da lanciarci ma, al contempo, abbastanza umiltà da metterci costantemente in discussione e, se necessario, cambiare tutto e ricominciare.

Non è facile. Ma è necessario.




 

Ancora 5 minuti.

Muro filosofico #13: “Ancora 5 minuti” una frase che ho trovato (più volte) scritta con spray rosso sui muri di Milano e che mi ha ricordato la canzone “Reflektor” degli Arcade Fire e, in particolare, un suo verso: «If this is heaven I need something more».

È un verso che sintetizza molto bene l’ansia di non avere mai abbastanza. Questa fastidiosa sensazione di poter avere sempre di più. Non tanto perché si vuole avere di più ma perché si ha l’illusione di poter avere di più. Avere più soldi, avere più follower, avere più cose, essere più produttivi, fare di più, avere più tempo, avere ancora 5 minuti.

Dai tempi della Rivoluzione Industriale il concetto di “abbastanza” non è più bastato. Nel momento in cui la produzione ha superato la domanda, il bisogno ha smesso di essere un bisogno naturale per essere sempre di più un bisogno indotto. Pensiamo alla tecnologia e alla musica. Quando da piccolo usavo il WalkMan mi sembrava incredibile poter portare in giro con me tutte quelle canzoni. Poi è arrivato il CD e le canzoni sulla cassetta non mi sembravano più abbastanza. Poi sono arrivati gli MP3 e un CD di canzoni non mi sembrava più abbastanza. Poi l’iPod da 16 Giga, poi quello da 32 Giga e da 64 Giga. E alla fine è arrivato Spotify che mi permette di avere tutte le canzoni del mondo sempre con me. E ora? Spotify è il limite o ci sarà qualcosa che mi permetterà di avere ancora più canzoni? Qual è il limite per sentirmi soddisfatto? Quando è abbastanza? Quando lo decido io o quando lo decide la tecnologia?

Nella mitologia tibetana buddista esiste un termine molto interessante: “Hungry Ghost”, fantasma affamato, indica uno stato in cui più veniamo sfamati, più abbiamo fame. È un concetto molto attuale, che rappresenta bene la condizione di noi consumatori che più acquistiamo, più sentiamo il bisogno di acquistare. Più abbiamo e più vogliono avere.




 

Mi manchi come se ti avessi avuto.

Muro filosofico #22: “Mi manchi come se ti avessi avuto” una frase meravigliosa che ha trovato un’amica su un muro di Milano e che mi ha ricordato un passaggio del film Professione assassino diretto da Simon West.

Nel film, Arthur Bishop, interpretato da Jason Statham, è un sicario che vaga per gli Stati Uniti d’America alla ricerca della propria identità persa nella nostalgia per un posto in cui non è mai stato. Una nostalgia non per qualcosa che ha vissuto, conosciuto o avuto (come nel caso della frase sul muro), ma per qualcosa che sente di non aver mai vissuto e che in fondo vorrebbe vivere. Come la madeleine di Proust, Arthur Bishop è qui nello spazio ma questo non è il suo tempo.

Oggi questo tipo di nostalgia è sempre più diffusa sotto forme diverse. C’è la nostalgia per il passato, la nostalgia per un’idea di futuro che non c’è più, la nostalgia per com’era Internet un tempo (la Netstalgia…), ma forse quella che si avvicina di più è la Fauxstalgia, ovvero la nostalgia per un passato che non abbiamo mai vissuto direttamente ma solo indirettamente tramite, per esempio, i film o la musica.

È normale che sia così, il nostro presente è intriso di nostalgia. La politica che promette un ritorno a un passato glorioso. I social Media che ci ripropongono ricordi del passato. Il cinema che produce un sequel dietro l’altro. Le serie televisive ambientate in un passato che non c’è più (e che forse non c’è mai stato). Tutto sembra guardare più al passato che al futuro. Tanto che nel marketing, la nostalgia è diventata una vera e propria strategia usata da molti brand per coinvolgere e rassicurare il proprio pubblico, perché, come dice il professore di psicologia Clay Routledge, in tempi di incertezza dove nessuno sa dove stiamo andando, la nostalgia è una forza stabilizzatrice che ci fa sentire più sicuri.




 

1977 – l’anno dell’eclisse Pop-Punk.

Il 1977 è l’anno dell’eclisse Pop-Punk e Londra è il suo epicentro. Mentre i Sex Pistols violentano le vette delle classifiche con il loro primo e unico album in studio Never Mind The Bollocks, Here’s The Sex Pistols, pubblicato dall’etichetta Virgin, il mondo viene travolto dalla saga più pop di tutti i tempi, Guerre Stellari, e dalle sue icone, opposte ma complementari, Luke Skywalker e Han Solo. A Londra suonano i Damned, i Vibrators, gli Slits, gli X-Ray Spex, i Siouxsie and the Banshees, gli Eater, gli UK Subs, gli Adverts, i London e i Chelsea che diventeranno il gruppo punk-rock Generation X da cui poi nascerà il fenomeno punk-pop Billy Idol. Se nei sobborghi di Londra si ascolta il Punk, in quelli di New York la musica Disco raggiunge il culmine del suo immaginario antipunk con Tony Manero e con il successo del film Saturday Night Fever. In Australia esce l’album Let There Be Rock degli AC/DC e At His Best di uno sconosciuto Sixto Rodriguez. Lemmy Kilmister lascia gli Hawkwind e, nel 1977, lancia il suo primo album con i Motörhead esibendosi allo storico Marquee Club di Londra.

Mentre da una parte dell’oceano il film Rocky vince tre Oscar e lancia la carriera di Sylvester Stallone, dall’altra l’anima di Bruce Lee, interpretata da Bruce Leung Siu-lung, prende la sua rivincita su Hollywood combattendo nell’oltretomba contro le icone pop Dracula, James Bond, Stanlio e Ollio, Clint Eastwood, il Padrino e l’Esorcista. Nonostante l’incidente del 1976, il 2 ottobre 1977 Niki Lauda è nuovamente campione del mondo di Formula 1 con la Ferrari che però lascia per passare alla Brabham-Alfa Romeo. In Svezia la tassazione è ai suoi massimi storici e, dopo l’uscita della storiella satirica Pomperipossa, firmata dalla madre di Pippi Calzelunghe Astrid Lindgren, finisce l’epoca d’oro del partito Social Democratico e di quel sogno comunista-capitalista chiamato Folkhemmet.

Nel frattempo l’inflazione è alle stelle e gli anni ottanta sono alle porte. I prezzi aumentano ma l’economia reale si ferma, i mercati sono bloccati dalla stagflazione e le teorie dell’economista Milton Friedman lanciano l’era del libero mercato e della politica del laissez-faire che vedrà in Margaret Thatcher e in Ronald Reagan la sua massima espressione. È l’inizio del consumismo e della speculazione finanziaria. Al cinema esce Uomo d’acciaio, film documentario che presenta al grande pubblico l’icona pop, del cinema prima e della politica poi, Arnold Schwarzenegger. Le borse si preparano alla rivoluzione digitale. Il Commodore e l’Atari creano un nuovo concetto di computer. Apple cavalca l’onda e lancia sul mercato Apple II. Nasce la Apple Computer Inc. Nello stesso anno muoiono Elvis Presley, Groucho Marx, Maria Callas e l’eroe pop più rivoluzionario della storia del cinema, Charlie Chaplin. All’inizio dell’estate il regista americano Francis Ford Coppola termina le riprese del suo capolavoro Apocalypse Now.

Il 6 gennaio 1977, a seguito dell’arresto della band psichedelica Plastic People of the Universe, nasce a Praga Charta 77, un manifesto redatto da oltre 200 intellettuali tra cui Václav Havel, Jan Patočka, Zdeněk Mlynář, Jiří Hájek e Pavel Kohout che chiedono alle autorità cecoslovacche il rispetto dei diritti politici, economici, umani e civili. Il governo descrive il manifesto come «un documento abusivo, antistatale, antisocialista e demagogico» e il movimento viene represso con violenze e soprusi. Nel frattempo a San Clemente in California, il giornalista britannico David Frost dà all’ex presidente degli Stati Uniti d’America Richard Nixon il processo che non ha mai avuto, vincendo il duello giornalistico più seguito della storia della televisione americana.

Nel febbraio del 1977 viene arrestato Renato Vallanzasca, il criminale più pop d’Italia, in ottobre muoiono nel carcere di Stammheim Andreas Baader e Gudrun Ensslin, leader dell’organizzazione terroristica tedesca Rote Armee Fraktion, e in aprile viene condannato l’attivista statunitense per i diritti dei nativi americani Leonard Peltier, il Mandela delle tribù. La sua storia diventa un simbolo d’ingiustizia condannata e celebrata tanto dalla cultura pop quanto da quella punk. Il chitarrista e cantante rock Little Steven e il gruppo rap-metal Rage Against the Machine scriveranno in seguito una canzone su di lui. Il gruppo rock-pop U2 gli dedicherà la hit Vertigo, il duo hip hop Dead Prez, I have a Dream, Too e Malcolm McLaren, creatore del fenomeno dei Sex Pistols, riserva a lui le sue ultime parole: Free Leonard Peltier!




 

Freud.

Ad oggi non esiste un sistema di monitoraggio e manipolazione mentale così sofisticato come il sistema FREUD descritto all’interno romanzo T.E.R.R.A., tuttavia sono molti i segnali che fanno pensare che un domani potremmo avvicinarci a qualcosa di simile. Almeno in teoria. Già oggi, infatti, sofisticati sistemi basati su Intelligenza Artificiale vengono utilizzati per consigliarci i film da vedere, i libri da leggere, le persone da seguire, gli allenamenti da fare, i cibi da mangiare, i prodotti da comprare, le notizie da leggere, la musica da ascoltare, le malattie da monitorare e le informazioni cui credere, portandoci così a chiuderci in un mondo che ci viene sempre più cucito addosso.

Fino ad ora, questa tecnologia è stata utilizzata principalmente per motivi commerciali. Ovvero per segmentare la popolazione di consumatori e proporci pubblicità quanto più in linea con i nostri gusti e i nostri bisogni. Ma questa non è una novità. Il Marketing funziona così da sempre. Oggi è solo molto più evoluto perché, a differenza di trent’anni fa, gli esperti di Marketing hanno a disposizione molti più dati su di noi.

Attraverso le nostre azioni online (i siti che guardiamo, le persone che seguiamo, i commenti che lasciamo, i prodotti che compriamo, le foto e i video che postiamo e così via) e offline (i luoghi che visitiamo, gli acquisti che facciamo con la nostra carta di credito, le carte fedeltà che sottoscriviamo, le attività che svolgiamo, le espressioni facciali che abbiamo, il tono di voce che usiamo quando parliamo e così via) potenzialmente un’azienda può conoscerci meglio di come noi conosciamo noi stessi e quindi offrirci sempre il prodotto o servizio giusto per noi, esattamente nel momento in cui cominciamo a sentirne il bisogno. Tuttavia questo sistema di segmentazione della popolazione in differenti cluster di appartenenza, sta scivolando velocemente in ambiti che vanno oltre il Marketing.

Attraverso le nostre azioni online e offline  potenzialmente un’azienda può conoscerci meglio di come noi conosciamo noi stessi e quindi offrirci sempre il prodotto o servizio giusto per noi, esattamente nel momento in cui cominciamo a sentirne il bisogno.

Pensiamo al mondo del lavoro. Nel 2019, un sistema basato su Intelligenza Artificiale sviluppato dalla startup americana Hire Vue, è stato utilizzato in Inghilterra per la selezione del personale. Il sistema sfrutta la tecnologia di Machine Learning per valutare le espressioni facciali, il lessico e il tono di voce dei candidati cui vengono sottoposte le stesse identiche domande e che vengono filmati attraverso uno smartphone o un personal computer. Le loro risposte e i loro video vengono poi confrontati in automatico con i dati raccolti intervistando dipendenti modello dell’azienda. In base al risultato, il candidato viene classificato all’interno di una categoria e poi, nel caso, selezionato per il lavoro per cui ha fatto il colloquio.

Spostandoci dall’ambito professionale per entrare in quello sociale, pensiamo al Sistema di Credito Sociale creato dal governo cinese. Il progetto nasce con il fine di sviluppare uno strumento di classificazione della reputazione dei cittadini cinesi e assegnare ad ognuno un punteggio che determina il loro credito sociale. L’algoritmo su cui è stato costruito il sistema si basa sulle informazioni possedute dal governo riguardanti la condizione economica e sociale di ogni singolo cittadino, le informazioni derivanti dai Big Data e quelle raccolte attraverso sofisticati sistemi di riconoscimento facciale. Per ora quello cinese è un sistema di sorveglianza di massa volto alla classificazione della popolazione cinese, ma ha tutte le risorse per trasformarsi in un sistema di controllo di massa volto alla persuasione della popolazione cinese. Una nuova forma di propaganda che, al posto di influenzare le decisioni delle persone, decide per loro conto.

Bastano dieci Mi piace per conoscere una persona meglio di quanto la possa conoscere un suo collega di lavoro, settanta Mi piace per conoscerla meglio di un suo caro amico, centocinquanta per conoscerla meglio dei suoi genitori e trecento per conoscerla meglio del suo partner.

Tornando in Europa e in America invece, basta pensare al celebre scandalo di Cambridge Analytica che ha mostrato al mondo occidentale il valore dei nostri dati e come questi possano essere utilizzati per manipolare le scelte commerciali e politiche delle persone. Il sistema di microtargeting comportamentale (ovvero una pubblicità altamente personalizzata su ognuno di noi) sviluppato dalla società di consulenza Cambridge Analytica, si basa su un algoritmo, creato dal ricercatore di Cambridge Michal Kosinski, grazie al quale bastano dieci Mi piace per conoscere una persona meglio di quanto la possa conoscere un suo collega di lavoro, settanta Mi piace per conoscerla meglio di un suo caro amico, centocinquanta per conoscerla meglio dei suoi genitori e trecento per conoscerla meglio del suo partner. Questo livello di conoscenza può permettere tanto a un’azienda di spingerci a comprare i suoi prodotti, quanto a un partito politico di spingerci a votare per il suo candidato.

Fonti:

  1. Simon Chandler, Artificial Intelligence Has Become A Tool For Classifying And Ranking People, Forbes, https://www.forbes.com/sites/simonchandler/2019/10/01/artificial-intelligence-has-become-a-tool-for-classifying-and-ranking-people/#7ff23fc1d7cd, 1 ottobre 2019.
  2. Sistema di credito sociale, https://it.wikipedia.org/wiki/Sistema_di_credito_sociale, Wikipedia, consultato nel marzo 2020.
  3. Edmund L. Andrews, The Science Behind Cambridge Analytica: Does Psychological Profiling Work?, Insights by Stanford Business, https://www.gsb.stanford.edu/insights/science-behind-cambridge-analytica-does-psychological-profiling-work, 12 aprile 2018.

 




 

Le cinque categorie identitarie di Freud.

L’algoritmo elaborato da Kosinski per Cambridge Analytica correla le nostre attività online (per esempio i Mi piace che mettiamo su Facebook) con i tratti base della personalità.

Tra i molti studi fatti sulla personalità, uno dei più accreditati è la Teoria dei Big Five, di Robert R. McCrae e Paul T. Costa, una tassonomia che prova a tracciare i cinque tratti fondamentali della personalità umana. Partendo dalle analisi del lessico fatte da diversi ricercatori, fra cui Francis Galton e Louis Leon Thurstone prima e Raymond Cattell poi, Costa e McCrae arrivarono a circoscrivere i tratti essenziali della personalità in cinque tipologie:

  1. Apertura mentale (come curiosità o apertura a nuove esperienze),
  2. Coscienziosità (come disciplina o affidabilità),
  3. Estroversione (come entusiasmo o socialità),
  4. Empatia (come altruismo o accondiscendenza)
  5. Nevroticismo (come ansia o instabilità emotiva).

Individuando poi per ogni tipologia alcune sotto dimensioni come il controllo delle emozioni e degli impulsi per il Nevroticismo, o la scrupolosità e la perseveranza per la Coscienziosità.

Sebbene sia difficile trovare una teoria universale che possa mappare ogni sfaccettatura della personalità umana, molti test scientifici tendono a inquadrare le persone utilizzando queste cinque categorie, proprio come il sistema di monitoraggio Freud proposto all’interno del romanzo T.E.R.R.A.

Nel particolare, la narrazione prevede cinque categorie identitarie che fuori dal Direttivo di Alles, non avevano un nome, c’era la categoria 01, 02, 03, 04 e 05. Dentro il direttivo di Alles, invece, ogni categoria rimandava a un personaggio della letteratura russa e, in particolare, dei romanzi dei due autori che, uno dei protagonisti, Bobby, considerava le fondamenta della lettura universale: Lev Tolstoj e Fëdor Dostoevskij.

Categoria 01 (Razumichin).
La categoria 01 era la più semplice da monitorare. All’interno del Direttivo, le persone appartenenti a questa categoria venivano chiamate i Razumichin. Come il personaggio di Delitto e castigo, le persone della prima categoria erano caratterizzate da un alto livello di coscienziosità. Erano molto affidabili, ordinati, organizzati, leali, disciplinati e produttivi, con sporadiche tendenze al perfezionismo. Facevano sempre quello che gli veniva detto di fare. Anche quando non glielo diceva nessuno. Erano la categoria che, più di ogni altra, garantiva stabilità e continuità allo Stato di A. Contribuivano al benessere della comunità attraverso il loro lavoro e le loro abitudini quotidiane. Sebbene non fossero persone religiose, i Razumichin avevano un’attitudine piuttosto calvinista alla loro vita. Vivevano per lavorare e nel lavoro trovavano la loro vocazione. Questo Freud lo sapeva molto bene e ogni giorno metteva le persone della prima categoria nelle condizioni di valorizzare se stesse attraverso quello che facevano. Il rischio più grande per questa categoria era la frustrazione. I Razumichin erano esecutori. Non avevano quelle che possono essere definite le caratteristiche del leader. Non erano in grado di motivare le altre persone e, spesso, non erano in grado di motivare neanche se stesse. Avevano un costante bisogno di gratificazione e dovevano sentirsi rassicurati e apprezzati. Freud era molto scrupoloso su questo punto. Appena identificava un segnale, anche piccolo, di ansia, frustrazione o sconforto in una persone appartenente alla prima categoria, nobilitava il suo lavoro aumentando i commenti positivi, regolando il livello di serotonina e spingendo il cittadino ad avere più relazioni sociali e praticare più sport. Nello Stato di A, appartenevano a questa preziosa categoria il 25,4% dei cittadini. Una percentuale che, secondo i piani di sviluppo di Alles, avrebbe dovuto raggiungere il 32,8% entro il 2025.

Categoria 02 (Dmitrij Karamazov).
Nella categoria 02 c’erano i Dmitrij Karamazov dello Stato di A. Persone molto estroverse, socievoli e piene di entusiasmo che rappresentavano il collante sociale della comunità e spesso ricoprivano ruoli da leader, grazie alla loro innata capacità di coinvolgere le persone e ispirarle. Le persone di categoria 02 condividevano tutto quello che facevano, amavano mostrarsi, erano piene di vita e, proprio come il primogenito dei Karamazov, erano disposte a tutto pur di poter dire: «Io sono!» Avevano bisogno di stare in mezzo agli altri, di non annoiarsi mai e di sentirsi pieni di vita, sempre. Questo era un loro tratto distintivo e, se tenuto sotto controllo, aveva ripercussioni positive su tutta la società. Tuttavia, i cittadini appartenenti a questa categoria avevano una pericolosa tendenza all’individualismo. Una tendenza che veniva costantemente monitorata e mitigata da Freud. Appena il sistema di monitoraggio rilevava tassi di egocentrismo ai limiti della megalomania, abbassava il tasso di dopamina presente nel loro corpo e ridimensionava i loro successi personali. A parte questa possibile deriva, le persone di categoria 02 erano tasselli fondamentali della struttura dello Stato di A. Principalmente per il loro ottimismo. Qualsiasi cosa succedesse, loro ci vedevano sempre il lato positivo. Vedevano opportunità dove altri vedevano difficoltà. Soluzioni dove altri vedevano problemi. E invenzioni dove altri vedevano errori. Non erano molti. Solo il 13,4% dei cittadini dello Stato di A apparteneva a questa categoria. Ma la loro influenza triplicava l’impatto che avevano sulla comunità di riferimento. Erano dei portatori sani di entusiasmo e positività.

Categoria 03 (Sofia Semënovna Marmeladova).
Nella categoria 03, composta dal 20,9% della popolazione dello Stato di A, rientravano tutti cittadini che, volontariamente o involontariamente, vivevano per gli altri più che vivere per se stessi. Un po’ come la Sofia Semënovna di Dostoevskij, le persone di categoria 03, erano disposte a tutto pur di aiutare il prossimo. Avevano una personalità molto altruista, compassionevole e accondiscendente. Se nel 2015, attraverso il progetto Nietzsche, non fosse stata eliminata la religione dallo Stato di A, una buona parte delle persone appartenenti a questa categoria, avrebbe intrapreso un percorso ecclesiastico. Ma, non essendoci più alcun dio in cui credere, molti cittadini di categoria 03 riversarono la propria pulsione religiosa in attività di volontariato che, per lo Stato di A, rappresentavano una manna dal cielo perché più loro facevano volontariato, meno lo Stato aveva spese pubbliche da sostenere. L’unica minaccia per la stabilità psicologica di una persona della terza categoria era la sua naturale tendenza al martirio che la portava a sacrificare se stessa per gli altri, generando così una pericolosa spirale di depressione, frustrazione e rassegnazione, tutte emozioni che nello Stato di A eravamo riusciti a debellare da anni. Per scongiurare questa deriva, il Direttivo dello Stato di A creò una funzione di Freud pensata apposta per monitorare l’andamento dei cittadini della terza categoria. Ogni volta che si sentivano insignificanti, Freud li faceva sentire importanti aumentando il livello di consenso sociale. Ogni volta che si trascuravano, Freud gli ricordava di prendersi cura di sé. E ogni volta che la loro negatività prendeva il sopravvento, Freud organizzava un incontro con un cittadino della seconda categoria.

Categoria 04 (Rodion Romanovič Raskol’nikov).
La categoria 04 era la più complessa da gestire e, per questo motivo, era quella più affascinante. Era la categoria dei Romanovič, persone narcisiste, egocentriche, con tendenze alla megalomania e vistosi deliri di grandezza. I cittadini della quarta categoria erano ansiosi, piuttosto instabili, facili prede di invidie e gelosie, e con una latente nevrosi che, talvolta, si trasformava in anacronistici scatti d’ira. Tutte caratteristiche dannose, tanto per il singolo cittadino, quanto per l’equilibrio dello Stato di A. Tuttavia, le persone di categoria 04 erano dotate di un’intelligenza sopra la media, avevano uno spiccato senso dell’onore e un patologico bisogno di fare una buona impressione sugli altri e tutto questo le rendeva degli alleati perfetti per garantire l’ordine all’interno dello Stato di A. Per valorizzare i Romanovič, il Direttivo affidò loro ruoli che un tempo sarebbero stati coperti da giudici, magistrati o poliziotti e impostò Freud affinché sedasse eventuali manie di grandezza attraverso un lavoro quotidiano e costante sul loro livello di empatia che, di natura, sarebbe stato troppo basso per gli standard dello Stato. Nel 2013 tuttavia, a seguito di alcuni casi di degenerazione da nevrosi e megalomania, il Direttivo diede inizio a un processo di contenimento di questa categoria con l’obiettivo di portarla, entro il 2025, dal 14,2% della popolazione al 6,8%.

Categoria 05 (Pierre Bezuchov).
La categoria 05 era la categoria dei Pierre Bezuchov. Al suo interno c’erano le personalità più curiose, fantasiose, creative e avventurose. Persone che amavano l’arte, la musica, la letteratura e, soprattutto, l’eterna ricerca. I Bezuchov dello Stato di A erano sempre alla ricerca di qualche nuova domanda cui dare una risposta. E non appena l’avevano trovata la condividevano con tutti. I cittadini della quinta categoria avevano un tasso di condivisione più alto della media. Condividevano tutto quello che facevano e pensavano. Il loro monitoraggio non richiedeva particolari misure. I dati che fornivano in autonomia erano tali da darci la possibilità di tracciare la loro vita con un margine di errore molto basso. Le persone di categoria 05 avevano interessi vari e spesso superficiali. Cominciavano sempre cose differenti, senza mai approfondirle troppo. Avevano molte relazioni. Facevano tanti lavori e provavano esperienze sempre nuove. Erano la tipica espressione dei nostri tempi. Provavano tutto senza impegnarsi in nulla. Senza mai godere di nulla. Erano dei turisti della loro stessa vita. Non mettevano radici e sfuggivano da ogni relazione e contratto che li legasse troppo. Nello Stato di A apparteneva a questa categoria il 18,3% della popolazione. Non era una percentuale molto alta. Però avevano un ruolo chiave all’interno della società, perché la loro creatività era la base per l’innovazione dello Stato di A.

Tutte le persone che Freud non riusciva ad inserire in una delle sue cinque categorie identitarie erano definite Outsider. Gli Outsider non erano tanti. Solo il 7,8% della popolazione dello Stato di A. Spesso erano persone di grande valore che, con il loro genio, avevano contribuito alla creazione di molte innovazioni. Ma erano soggetti che richiedevano una maggiore attenzione e una comprensione più profonda. Per poterli valorizzare e monitorare, il Direttivo dello Stato di A creò una rete di psicologi dedicati che potessero fornire le informazioni che un computer non avrebbe mai potuto dare. Gli Outsider non erano obbligati ad essere seguiti da uno psicologo. Ma nello Stato di A andare da uno psicologo era considerato qualcosa di elitario. Qualcosa che solo le menti più creative ed eccentriche potevano permettersi. E gli Outsider volevano sentirsi così.




 

Privatizzazione della cosa pubblica.

L’idea, descritta nel romanzo T.E.R.R.A., di un mondo totalmente privatizzato in cui non esiste più la cosa pubblica e il governo dei continenti è passato nelle mani dei cinque conglomerati con la maggior valorizzazione di mercato, è piuttosto distante dalla realtà. Tuttavia la direzione verso cui sta andando il mondo potrebbe essere questa.

Negli ultimi tre decenni siamo passati da un’economia di mercato a una società di mercato, in cui il denaro filtra all’interno di ogni aspetto del comportamento umano e dove i mercati e i valori di mercato sono arrivati a governare le nostre vite come non era mai accaduto prima.

A partire dagli anni Settanta infatti, sempre più Paesi stanno vendendo, o svendendo a seconda dei punti di vista, i propri beni. Pensiamo al caso, emblematico, dell’Inghilterra. Tra il 1979 e il 1993, il governo britannico vendette due terzi dell’industria pubblica al settore privato. Dalla British Aerospace nel 1981 alla British Telecom nel 1984. Questo processo di privatizzazione e finanziarizzazione, riguarda tanto lo Stato quanto i suoi cittadini. Come scrive il filosofo statunitense Michael Sandel, negli ultimi tre decenni siamo passati da un’economia di mercato a una società di mercato, in cui il denaro filtra all’interno di ogni aspetto del comportamento umano e dove i mercati e i valori di mercato sono arrivati a governare le nostre vite come non era mai accaduto prima.

Ovvero stiamo applicando le regole del mercato privato alla nostra vita. E la nostra vita dipende sempre meno da istituzioni pubbliche e sempre di più da aziende private che, con le loro ingenti disponibilità economiche e i loro prodotti e servizi, colmano le lacune lasciate dalla cosa pubblica. Le aziende pagano le assicurazioni sanitarie ai propri dipendenti, sponsorizzano i musei che visitiamo, gli ospedali dove ci curiamo, la musica che ascoltiamo, i film che vediamo in televisione, le metropolitane che usiamo e le scuole dove ci formiamo o dove si formano i nostri figli.

A partire dagli anni Settanta infatti, sempre più Paesi stanno vendendo, o svendendo a seconda dei punti di vista, i propri beni.

Ed è proprio il settore della formazione dove stanno avvenendo alcuni dei più significativi contatti tra aziende private e istituzioni pubbliche. Pensiamo ad Amazon. Con il fine di garantirsi manodopera qualificata nel futuro, l’azienda fondata da Jeff Bezos sta lavorando già oggi con diverse scuole materne per stabilire le basi della formazione Tech. Questa ingerenza della cosa privata in quella pubblica è tale da aver portato la storica dell’università di Washington, Margaret O’Mara, a considerare gli USA la nazione Amazon. La Nazione A, per rifarci al romanzo.

Fonti:

  1. Loretta Napoleoni, Maonomics, Bur, 2013.
  2. Michael Sandel, What Money Can’t Buy: The Moral Limits of Markets, Allen Lane, Penguin, 2012.
  3. Karen Weise, Pushed by Pandemic, Amazon Goes on a Hiring Spree Without Equal, The New York Times, https://www.nytimes.com/2020/11/27/technology/pushed-by-pandemic-amazon-goes-on-a-hiring-spree-without-equal.html, 27 novembre 2020.




 

I Ghostbusters e l’importanza di avere un posizionamento unico.

“Chi vuol essere da per tutto, non sta in nessun luogo.”
– Seneca

Immagina di essere a New York, nel 1984, ogni mercato sembra già essere stato esplorato e ogni bisogno soddisfatto. Come poter creare qualcosa di nuovo? Come ritagliarsi un posizionamento unico e profittevole? Difficile, forse impossibile. Ma non per tre dottori di ricerca universitari in parapsicologia che riescono a costruirsi la loro nicchia all’interno di un mercato in forte crescita, quello degli acchiappa-fantasmi. Inventano nuove tecnologie all’avanguardia come lo zaino protonico e le ghost-traps. Si creano un posizionamento unico e distintivo e un’immagine riconoscibile. E in breve tempo diventano l’unica risposta alla domanda “Who ya gonna call?” ogni volta che qualcuno trova un uomo invisibile nel suo letto o c’è qualcosa di strano nel vicinato.

Non hanno concorrenza. Non sono un’alternativa alla polizia. Non sono un’alternativa ai vigili del fuoco. Inventano un’attività che solo loro possono fare e il nome Ghostbusters è sulla bocca di tutti. Ti ho raccontato questa storia perché qualsiasi sia la tua attività, è importante che tu abbia un posizionamento chiaro e, per quanto possibile, unico. Così che ogni volta che il tuo cliente target ha un problema tu sarai la prima persona che gli viene in mente e che quindi chiamerà.

Nella lingua inglese c’è un termine molto bello: “Go To”. Un termine che può essere applicato a una persona (“Go To Person”) o a un’azienda (“Go To Company”) o a un politico (“Go To Politician”), e indica la persona migliore per risolvere un problema specifico. Per esempio, in un’azienda il “Company’s go-to guy for new ideas” è quello cui tutti fanno riferimento quando serve una nuova idea. Avere un posizionamento così specifico ti aiuta molto perché, un po’ come i Ghostbusters con i fantasmi, diventi l’unico riferimento sul mercato per risolvere un determinato problema e quindi tutti si rivolgono a te (= comprano il tuo servizio o prodotto).

Il modo migliore per avere questo tipo di posizionamento è ovviamente trovare un bisogno di mercato reale e profittevole, inventarsi un servizio o prodotto per soddisfarlo e poi fare una comunicazione costante e mirata. Così che alla domanda “Who ya gonna call?” tutti penseranno a te.

Quando stai pianificando la tua strategia marketing dunque, comincia compilando questa semplice frase:

“Hai bisogno di ___________? Chiama _________!”.

Dove nel primo spazio inserisci il (non “i”) bisogno di mercato che ti proponi di risolvere. Mentre nel secondo spazio il tuo nome o il tuo Brand. Ti faccio qualche esempio:

“Hai bisogno di liberarti dai fantasmi? Chiama i Ghostbusters!”
“Hai bisogno di comprare on line? Chiama Amazon!”
“Hai bisogno di ascoltare musica? Chiama Spotify!”
“Hai bisogno di cercare on line? Chiama Google!”
“Hai bisogno di un posto dove stare durante le tue vacanze? Chiama Airbnb!”

Ricordati: Il posizionamento non è l’idea che tu hai del tuo brand nella tua testa, ma quello che di te ha il tuo cliente nella sua testa. Quindi si parte dal cliente, non dal prodotto.




 

Malinowski e l’importanza di conoscere il mercato da dentro.

“Se vuoi essere un buon oratore, sii un ottimo ascoltatore. Per essere interessante, sii interessato.”
– Dale Carneige

Così come Copernico ha rivoluzionato l’Astronomia e Marcel Duchamp ha rivoluzionato l’Arte, Bronisław Malinowski ha rivoluzionato l’Antropologia. Prima di Malinowski, gli antropologi erano dei topi da biblioteca che passavano la vita chiusi nelle loro stanze ad analizzare dati raccolti da altri. Malinowski invece sposta il lavoro dell’antropologo sul campo così da cogliere a pieno il punto di vista dei soggetti osservati e comprendere la loro visione del mondo. Non si limita a studiare o osservare ma parla con le persone e condivide con loro esperienze.

Te ne parlo perché penso che ci sia molto da imparare da Malinowski. Oggi infatti il motivo principale per cui le start up falliscono è la mancanza di un bisogno di mercato reale. Ovvero non hanno capito il proprio mercato di riferimento. Pensavano di avere l’idea del secolo, ma quando poi l’hanno lanciata sul mercato si sono resi conto che non risolveva alcun problema reale (e quindi nessuno era interessato a comprare il loro prodotto o servizio). Morale della storia, quando ti stai mettendo in proprio, non limitarti a studiare il mercato ma vivilo per scovare nuovi trend e nuove opportunità. Parla con le persone e capisci da loro quali problemi hanno e come puoi risolverli.

In quest’ottica, quando ti metti in proprio, è molto utile tenersi aggiornato su quello che accade nel mondo così da anticipare e comprendere tendenze e fenomeni che potrebbero impattare il tuo lavoro oppure ispirarti nuove idee. Il modo migliore per farlo è vivere da dentro il tuo mercato di riferimento. Ovvero, osservare quello che fa o dice la gente. Se passeggiando per strada, vedi molta gente in fila fuori da un negozio, un cinema o un teatro, fermati e cerca di capire cosa sta accadendo. Non voltare mai lo sguardo. Leggi i giornali, ascolta la musica, vivi l’arte. Sii curioso. Fai domande e domandati il perché delle cose.

A questo atteggiamento “antropologico”, puoi poi affiancare un lavoro più di ricerca. Su Internet per esempio puoi trovare molti siti e magazine on-line che forniscono, più o meno gratuitamente, dati, grafici e articoli. Tra questi ti consiglio:




 

Richard Branson e l’importanza di vedere le minacce come opportunità.

Never Mind The Bollocks, Here’s The Sex Pistols è stato uno degli album più spregiudicati, sovversivi e di successo della storia della musica Rock di tutti i tempi. Un album che nessuna etichetta musicale si prese il rischio di pubblicare. Nessuna, tranne una: la Virgin Records dell’imprenditore britannico Richard Branson. A quei tempi, Branson era sempre in giro per il mondo alla ricerca di nuovi artisti e nuove band da promuovere.

Nell’inverno del 1977 si trova in Giamaica e, dopo qualche giorno di vacanza, si reca in aeroporto per prendere un volo con destinazione Puerto Rico, ma, senza alcun preavviso, il volo viene cancellato. A differenza di tutti gli altri passeggeri, Branson non si rassegna, si reca presso l’ufficio della compagnia aerea e, con aplomb britannico, chiede quanto costi noleggiare un aereo: 2.000 dollari.

Branson ferma l’aereo, prende una lavagna e scrive: Virgin Airways, 39 $. Volo di sola andata per Puerto Rico. I biglietti vengono venduti in un attimo e Branson riesce a ricavare un utile di 80 dollari per pagare il suo biglietto e quello della sua compagna. Nasce così l’idea alla base della prima compagnia aerea di Branson, la Virgin Atlantic.

In quello che tutti i passeggeri del volo cancellato vedevano come un imprevisto – come qualcosa di negativo – Richard Branson ci ha visto un bisogno di mercato da soddisfare e un’opportunità per creare un nuovo servizio che, in trent’anni, ha trasformato in Virgin Airways, azienda che serve oltre 300 destinazioni nel mondo e che con Virgin Galactic offrirà voli privati nello spazio, passando così dal noleggio di un unico aereo al turismo spaziale.

Una delle principali caratteristiche di ogni imprenditore e inventore del proprio lavoro è vedere tutto come un’opportunità. E quando dico “tutto” intendo sia le cose positive che quelle negative. Un mio amico che ha passato la vita ad inventarsi lavori, un giorno mi disse che la differenza tra un disastro e un’avventura è solo una questione di attitudine.

E aveva ragione. Qualcosa di negativo può sempre essere trasformato in qualcosa di positivo o quanto meno in una lezione per non ripetere lo stesso errore. Per comprendere meglio questo concetto, proviamo a vedere, più nel dettaglio, come otto delle più comuni negatività possono essere viste come qualcosa di positivo:

  1. I fallimenti sono positivi (se sai trarne lezioni).
  2. Gli errori sono positivi (se hai una mente aperta).
  3. La crisi è positiva (se riesci ad andare oltre).
  4. Le debolezze sono positive (se le valorizzi).
  5. I problemi sono positivi (se sei creativo).
  6. Le critiche sono positive (se riesci a depersonalizzarle).
  7. Chiudere è positivo (se non lo vedi come un fallimento).
  8. Il rischio è positivo (se riesci a gestirlo).

 




 

Metaverso e Vaporware.

Spesso ho sentito definire il Metaverso come una “Vaporware” (una tecnologia che sembra impressionante ma che in realtà non esiste). È presto per dirlo. Ora c’è troppa confusine e troppa poca conoscenza a riguardo.

Quello che è sicuro è che il Metaverso di META (ex Facebook) è stata una delle più grandi “Vapornews” della storia. Ovvero una notizia volutamente esagerata e utilizzata per coprire altre news. Non a caso infatti la notizia della conversione di Facebook in META è uscita poco dopo lo scandalo nato dalle dichiarazioni della whistleblower Frances Haugen su Facebook. Una geniale mossa di PR dunque.

Anche perché il Metaverso è qualcosa che esiste da molti anni e che ha già rivoluzionato settori che valgono miliardi di dollari, primo fra tutti quello del Gaming (che vale 146 miliardi di dollari, contro i 42 del cinema e i 20 della musica, oltre a coinvolgere uno dei target più interessanti e difficilmente raggiungibili: la Generazione Z).

Il Metaverso è dunque il futuro? No. È uno dei “futuri”. Sicuramente interesserà molti altri settori e cambierà la nostra vita ma è solo uno dei diversi tasselli di un grande cambiamento che già oggi stiamo vivendo e che si intreccia con fenomeni altrettanto cruciali come la Blockchain, il Web 3.0, le DAO e le cripto valute.

La mia speranza (da NETstalgico della prima Internet) è che nel Metaverso si possa tornare ai valori di ricchezza condivisa, libertà di espressione e uguaglianza su cui era nato il Web 1.0 e con il Web 2.0 si è persa.




 

Fate cose fighe con persone fighe.

Nel 2017 ho scritto un libro. Il titolo era “Inventati il lavoro“. E il primo sottotitolo era “Superare la fine del posto fisso e svegliarsi ogni mattina con il sorriso”.

Il sottotitolo non mi è mai piaciuto molto, e infatti nelle edizioni successive è cambiato. Tuttavia penso che quello del sorriso sia un buon test per vedere se il lavoro che stiamo facendo sia quello giusto.

Se ogni mattina ci svegliamo con il sorriso perché sappiamo che ci aspetta una giornata di lavoro in cui faremo qualcosa che ci interessa o, ancora meglio che ci dà la possibilità di realizzare un nostro talento o una nostra vocazione, allora è il lavoro giusto.

Se invece la mattina ci svegliamo stanchi e demotivati all’idea della giornata lavorativa che ci aspetta, allora, forse, il lavoro che stiamo facendo non è quello giusto.

Ironia della sorte, io nel 2017 mi svegliavo così.

Stavo vivendo un periodo di passaggio professionale in cui facevo fatica a capire quale fosse la strada giusta. Una fase in cui sentivo di aver perso la mia vocazione. Passavo da un progetto ad un altro senza mai riuscire a concretizzare nulla.

Ero diventato facile preda di una serie di pseudo-imprenditori tanto bravi a parlare quanto poco bravi a mettere in pratica quello di cui parlavano, con il risultato che mi hanno fatto perdere anni di vita lavorativa, di energia e di entusiasmo. Tutte cose che, una volta passate, è difficile far tornare.

Tre anni fa però sono tornate e con loro è tornato anche il sorriso al mattino e quella fiamma che avevo messo sulla copertina del libro.

Domenica scorsa, alla fine dell’evento Hacking Creativity Unplugged, Federico Favot è salito sul palco per fare un breve, ma intenso, monologo in cui ha parlato della sua adolescenza, della musica che ascoltava e di quella voglia di vivere che lo ha sempre accompagnato.

Se nella vita abbiamo la fortuna e la volontà di fare cose fighe con persone stimolanti e che stimiamo, allora sì, ogni mattina ci sveglieremo con il sorriso.

Federico ha finito così il suo monologo: «Usiamo il tempo che abbiamo per fare cose fighe»

È un ottimo monito che condivido. Aggiungerei solo una cosa: «con persone fighe». Se nella vita abbiamo la fortuna e la volontà di fare cose fighe con persone stimolanti e che stimiamo, allora sì, ogni mattina ci sveglieremo con il sorriso.