Il futuro è femminile, ma il presente no.

Tanto in termini di opportunità di carriera, quanto in termini di ruoli ricoperti e di differenza di stipendi, la condizione delle donne sul lavoro è talmente critica che che la consigliera dell’Onu Anuradha Seth ha definito il divario salariale il più gran furto nella storia dell’uomo.

Per capire la gravità della situazione pensiamo all’Italia che dopo la Grecia, è il paese dell’Unione Europea dove lavora la percentuale minore di donne: il 53,1%, il che, tradotto in altri termini, vuol dire che in Italia quasi una donna su due non lavora. E quando lavora spesso lo fa a condizioni svantaggiose rispetto a un collega uomo di pari livello. Tanto in termini di stipendio (in Italia c’è un gender pay gap del 23%) quanto in termini di carriera (in Italia solo il 26% delle donne ricopre cariche manageriali e solo il 21,8% delle imprese italiane è guidato da donne). Sono dati allarmanti. Non solo da un punto di vista economico. Ma anche da un punto di vista sociale e culturale. Perché negare a una persona la possibilità di avere un lavoro, vuol dire negarle l’indipendenza, la possibilità di esprimersi, di realizzarsi e di valorizzare il proprio talento.

Inoltre questa situazione, già di per sé negativa, si acuisce in momenti di crisi economica come quello che stiamo vivendo oggi. Negli Stati Uniti per esempio, a pagare il prezzo della crisi sono state soprattutto le donne tanto che Nicole Mason, CEO e presidente del Institute for Women’s Policy Research ha parlato di “Shecession”, per sottolineare come la recessione economica dovuta alla pandemia da Covid-19 sia soprattutto una recessione al femminile. Questo tuttavia è il presente. E il fatto che il presente sia una continuazione del passato, non vuol dire che il futuro debba necessariamente essere una continuazione del presente. Anzi, la condizione delle donne sul lavoro non solo può cambiare, ma deve cambiare.

Il fatto che il presente sia una continuazione del passato, non vuol dire che il futuro debba necessariamente essere una continuazione del presente. Anzi, la condizione delle donne sul lavoro non solo può cambiare, ma deve cambiare.

Personalmente penso che il futuro del mondo debba appartenere anche alle donne. Lo penso perché il futuro sarà complesso, e le donne hanno una mente più propensa alla complessità di quella degli uomini. Lo penso perché il futuro sarà (spero) di pace, e la guerra è fatta, pensata e promossa dagli uomini. Lo penso perché nel futuro dovremo pensare fuori dagli schemi, e le donne lo hanno dovuto fare per secoli perché qualsiasi schema era al maschile. E infine lo penso perché nel futuro dovremo prenderci cura di quello che abbiamo (il nostro pianeta in primis), e l’uomo ha la propensione a distruggere quello che lo circonda (fin dai tempi del “Mors Tua Vita Mea”), la donna invece a prendersene cura (fin dai tempi in cui partorire voleva spesso dire “Vita Tua Mors Mea”).

I segnali che stiamo andando in questa direzione ci sono e sono tanti. Sempre più spesso a capo di aziende e istituzioni vengono nominate donne. Ngozi Okonjo-Iwealea è stata nominata nuova direttrice generale del WTO, Tokiko Shimizu è la prima donna a ricoprire una carica dirigenziale esecutiva nella Banca Centrale del Giappone, Kamala Devi Harris è la prima Vice-Presidente donna degli Stati Uniti d’America, Sheryl Sandberg è la Chief Operating Officer di Facebook e Mary Teresa Barra è la prima donna a guidare una casa automobilistica (la General Motors Company). Più in generale, dal 2011 al 2020 il numero di donne a capo di aziende Fortune 500 è più che triplicato, trend in parte dovuto anche alle migliori prestazioni date da aziende guidate da donne. Uno studio McKinsey del 2015 ha per esempio messo in luce come le prestazioni finanziarie delle aziende sembrano migliorare, con un numero maggiore di donne manager, del 15% in più rispetto alla mediana del settore. Incoraggianti sono anche i numeri relativi al mondo dell’imprenditoria. Dal 2001 al 2017 le donne miliardarie imprenditrici (“Self Made Women”) sono passate da 1 a 57, raggiungendo un traguardo mai toccato prima. Inoltre secondo una ricerca fatta da StartUp Genome il 56% delle donne imprenditrici lancia la propria azienda con l’obiettivo di cambiare il mondo (gli uomini che lo fanno sono solo il 41%). E questo permette di avere una leva valoriale più significativa. Anche in Italia, dove tanto l’imprenditoria quanto la condizione lavorativa delle donne non è particolarmente stimolata, il 40% delle imprese femminili è nato dopo il 2010, ovvero negli ultimi 8 anni in Italia c’è stato un boom di donne imprenditrici. Sono numeri e dati ancora modesti, ma indicano l’inizio di un cambiamento che va nella giusta direzione.