Siri, Obama e il ricordo di Keynes

Scritto il 3 Marzo 2015

In un’intervista uscita qualche settimana fa su EconomyUp, mi è stato chiesto cosa consiglierei ai politici italiani per uscire dalla crisi. È una domanda facile nella sua proposizione ma molto complessa nella sua articolazione. Non si possono lanciare proposte senza conoscere profondamente il contesto economico italiano e globale. Così ho cercato di sviare la domanda limitandomi a ricordare quanto fatto in passato da altri Paesi che, prima di noi, hanno affrontato crisi economiche simili, se non addirittura superiori, a quella attuale. Come (banale dirlo) gli Stati Uniti nel 1929.
Lasciando da parte per un momento il passato. Una delle risposte più concrete a questa domanda penso possa essere trovata nell’America dei giorni d’oggi. All’interno del suo libro The Entrepreneurial State, Mariana Mazzucato, sottolinea l’importanza dello Stato nell’innovazione del Paese e delle sue imprese. Pensiamo a Keynes e alla sua idea di uno Stato innovatore che «non si limiti a fare quello che gli individui stanno già facendo e farlo un po’ meglio o un po’ peggio di loro, ma che faccia qualcosa che nessuno al momento sta facendo». Quest’idea di Stato-imprenditore, soprattutto in Paesi bloccati dalla burocrazia, sembra quasi una visione irreale (un esempio è l’Italia dove, secondo un’inchiesta pubblicata sul Time nell’aprile del 2014, il 96% degli italiani considera il governo come un ostacolo nel fare business piuttosto che come un supporto), eppure non solo è la direzione verso cui ogni istituzione dovrebbe tendere, ma è anche quello che accade o è già accaduto in alcuni Paesi.
Nel 1983 il governo canadese ha concesso 1,2 milioni di dollari canadesi all’allora ventitreenne Guy Laliberté, grazie ai quali l’ex mangiafuoco è riuscito a trasformare il suo Club des talons hauts nel successo mondiale Cirque Du Soleil. Molte delle tecnologie dietro al successo di prodotti come l’iPhone sono state sovvenzionate dallo Stato della California. Lo stesso SIRI è stato programmato con tecnologie finanziate dallo Stato. Sempre negli Stati Uniti, nel settore delle biotecnologie, delle nanotecnologie e di internet, le società di venture capital sono arrivate 15-20 anni più tardi rispetto agli investimenti fatti dal settore pubblico.
Per riprendere la domanda iniziale quindi, non so quale sia la soluzione politica per uscire da questa crisi ma sono fortemente convinto che la risposta non sia l’austerità che sta contraddistinguendo le scelte strategiche di molte economie europee. Persino Herbert Hoover ci era cascato. Di fronte alla crisi del ’29 aveva optato per una riforma basata su tagli e «vacche magre». Ma poi il governo americano ha seguito le dottrine keynesiane ed è riuscito a rilanciare l’economia. Lo ha fatto investendo, dando ossigeno alle imprese americane che hanno risposto con una spinta innovatrice che ha portato gli Stati Uniti ad essere l’economia più potente al mondo. Questa cultura esiste ancora oggi. Pensiamo alla politica economica di Obama, alla Teoria Monetaria Moderna, al modello californiano e agli investimenti che gli Stati Uniti continuano a fare in aziende come Google e Apple. Non è un caso che l’America si sia ripresa molto più velocemente dalla crisi rispetto all’Europa.
Quasi un secolo fa, John Maynard Keynes ci insegnava che dalla crisi si esce solo se la domanda pubblica si sostituisce alla domanda privata. Se lo Stato quindi investe (nella giusta direzione…) per rilanciare l’economia che di per sé ristagna. E questa lezione è più attuale che mai. Funziona così da sempre. Se il modello liberista trionfa nelle fasi di espansione dell’economia dove tutti vogliono avere la libertà di indebitarsi, spendere e spandere senza limiti. Quello keynesiano torna di moda ogni volta che la libertà del singolo individuo, il laissez-faire, ha portato a una crisi cui a pagarne le spese sono tutti, e non solo l’elite che l’ha creata.