Corrente #71: Algospeak.

Di tutte le copertine, spesso iconiche e provocatorie, del magazine americano “National Lampoon”, fondato da Douglas Kenney, una delle più note è quella del Gennaio del 1973 che vede la fotografia di un cane con una pistola puntata alla tempia accompagnata dal titolo: «If you don’t buy this magazine we’ll kill this dog».

Una copertina spietata ma geniale che segnerà l’inizio di un periodo d’oro per la rivista. Negli anni successivi infatti, insieme al successo, arriveranno anche lo show “Saturday night live” e il film “Animal house” che porranno le basi per la televisione e il cinema comico americano degli anni Ottanta e Novanta.

Mi domando quali reazioni potrebbe generare oggi questa copertina. Indignazione? Rivolte da parte degli animalisti? Denunce? Forse la rivista verrebbe ritirata dal mercato? Si chiederebbero le dimissioni del direttore o della direttrice?

Ma soprattutto saremmo ancora in grado di riderci sopra? E sarebbe giusto riderci sopra? Oppure faremmo bene ad indignarci per quello che una copertina così potrebbe, volendo, rappresentare: una violenza gratuita imposta a un essere vivente?

Sono domande cui è difficile rispondere e che si fanno ancora più complesse nel momento in cui, oggi, non siamo solo noi esseri umani a dover rispondere ma sempre più spesso è un algoritmo a doverlo fare.

Come fare, per esempio, ad educare un algoritmo che avrà il compito di filtrare i contenuti da mostrare a miliardi di persone su cosa sia giusto censurare e su cosa invece vada considerato come satira?

Qui il confine è ancora più delicato e sottile: basta una riga di codice per passare da qualcosa di profondamente giusto, oltre che necessario (censurare contenuti inappropriati) a qualcosa di profondamente sbagliato, oltre che pericoloso (limitare la libertà di espressione).

All’interno di questo complesso e articolato scenario si inserisce l’Algospeak, ovvero un insieme di parole in codice o neologismi che gli utenti stanno adottando per evitare che i propri contenuti possano essere censurati dagli algoritmi di moderazione di social come Instagram o TikTok.

Che è poi l’essenza di molta della censura che stiamo vivendo oggi: cambiamo la superficie dimenticandoci che quello che conta è la sostanza.

Per comprendere meglio questo linguaggio pensiamo a termini come “unalive” utilizzato al posti di “dead” o “SA” invece di “sexual assault” o “spicy eggplant” invece di “vibrator”. Tutte parole inventate per trasmettere il significato, modificando il significante.

Lasciando i Social per passare al cinema, uno degli esempi più divertenti e intelligenti di Algospeak che ho visto in Italia è quello fatto dal gruppo satirico il Terzo Segreto di Satira nel loro ultimo film “DOMINO 23 / Gli ultimi non saranno i primi” dove un dirigente d’azienda, interpretato da Massimiliano Loizzi, durante un discorso in stile “Full Metal Jacket”, si presenta agli aspiranti dipendenti, dicendo e facendo tutto quello di negativo che nelle aziende si è sempre fatto, ma utilizzando un linguaggio politicamente corretto.

Che è poi l’essenza di molta della censura che stiamo vivendo oggi: cambiamo la superficie dimenticandoci che quello che conta è la sostanza.