Corrente #38: Autofiction.

Forse tutto è cominciato con Flaubert. L’inventore del romanzo moderno. Colui che per primo ha dato il ruolo da protagonista alla banalità del quotidiano dove niente passa e niente avviene. Dopo Flaubert è arrivato il cinema, la televisione, i reality, il Grande Fratello, Internet e i Social Media.

Un lungo processo che ci ha portato a vivere, oggi, un paradosso interessante: da una parte le celebrità fanno di tutto per apparire meno “celebri” così da sembrare più vicine al loro pubblico. Si mostrano senza trucco e si ritraggono in contesti famigliari mentre fanno cose che fanno tutti.

Dall’altra parte però, persone non celebri fanno di tutto per apparire più “celebri”. Mostrano foto e video di loro in contesti esclusivi, affittano jet privati giusto per il tempo di un selfie e concorrono a nutrire la sempre più folta schiera di quelli che l’antropologo francese Marc Augé chiama gli esibizionisti della vita privata.

Da una parte le celebrità fanno di tutto per apparire meno “celebri” così da sembrare più vicine al loro pubblico. Dall’altra parte, persone non celebri fanno di tutto per apparire più “celebri”.

All’interno di questo contesto si inserisce il fenomeno dell’Autofiction. Il termine, di per sé, non è recente, risale a più di quarant’anni fa quando, nel 1977, venne usato dallo scrittore francese Serge Doubrovsky in riferimento al suo romanzo Fils per indicare il genere letterario in cui l’autore stesso è il protagonista delle vicende di finzione narrate.

Oggi, tuttavia, nell’epoca dei Social Media, l’Autofiction indica un più ampio desiderio di celebrità e si intreccia con molti altri fenomeni tipici dell’epoca corrente, come la «Selfite Cronica», che potremmo definire come l’urgenza di scattarsi selfie e caricarli sui social almeno sei volte al giorno.

Per comprendere l’entità del fenomeno, basta pensare che, già nel 2012, negli Stati Uniti, il più grande obiettivo nella vita per i bambini dai 10 ai 12 anni era essere celebri, mentre secondo un sondaggio fatto nel 2017 su 1.000 bambini britannici, la scelta più popolare per una futura carriera era diventare uno “YouTuber”.

È un atteggiamento che non stupisce, può anche avere una giustificazione socio-comportamentale. Per riprendere le parole di Augé infatti, il bisogno di raccontarsi, di trasformare in narrazione le vicende della propria vita personale è comune a tutti, è semplicemente l’espressione della dimensione simbolica dell’individuo che ha bisogno della presenza degli altri e della parola per esistere davvero.

Il problema è quando si perde la cognizione del limite fra finzione e realtà e si pensa che, solo per il fatto di avere un mezzo (come i Social Media) che forse potrebbe renderci celebri, allora dobbiamo essere celebri per essere felici e sentirci realizzati.

Quando invece, molto spesso, vale il contrario. Come sostiene un recente articolo pubblicato su The Atlantic infatti, per essere felici serve nascondersi dai riflettori della celebrità. Soprattutto quando, come spesso accade sui Social Media, è una celebrità fine a se stessa.