Corrente #10: Positività Tossica.

In Palestina l’artista britannico Banksy è diventato una delle principali attrazioni turistiche. Dai molti murales sparsi tra giganteschi muri bianchi, piccole pareti di case e il grande muro di separazione tra Israele e Palestina fino al Walled Off Hotel un albergo/installazione a Betlemme che dal 2017 ha attirato centinaia di migliaia di visitatori. Tra le tante opere realizzate dall’artista in Palestina, c’è anche un gattino alto più di due metri dipinto su un muro a Gaza. Il soggetto stride con la desolazione e la distruzione del contesto che lo circonda e, parlando di quest’opera, Banksy ha detto che l’obiettivo del suo lavoro era evidenziare la distruzione a Gaza pubblicando foto sul suo sito web, ma dal momento che su Internet le persone guardano solo foto di gattini, ha pensato che disegnare un gattino che gioca con un ammasso di cavi arrugginiti di metallo potesse essere un buon modo di attirare l’attenzione.

Forse la posizione di Banksy è esagerata, su Internet non si guardano solo foto di gattini, ma è indubbio che i gattini siano una delle immagini più iconiche della nostra epoca. Parto quindi da quest’immagine per parlarti di una corrente sempre più diffusa: la Positività tossica, ovvero uno stato mentale per cui accettiamo solo emozioni ed esperienze positive cercando in tutti i modi di evitare il dolore.

Positività tossica: Stato mentale per cui accettiamo e mostriamo solo emozioni ed esperienze positive cercando in tutti i modi di evitare il dolore.

La positività tossica s’intreccia con altri grandi trend tipici dei nostri tempi come l’algofobia, ovvero la tendenza a evitare il dolore, le emozioni negative e tutto quello che potrebbe incrinare la nostra serenità apparente. Una sorta di imperativo che ci spinge a metterci una maschera sorridente in faccia e ricercare solo contenuti ed esperienze effimere, come i tanti gattini che circolano online. Grazie anche ai Social Media, tendiamo a costruirci un mondo fatto di notizie positive, cuoricini e Like, con il paradosso che oggi tanto la depressione quanto i suicidi sono in continuo aumento.

Nel 2017, secondo il World Health Organization, più di 300 milioni d’individui soffrivano di depressione con un aumento dei casi pari a quasi il 20% tra il 2005 e il 2015. Situazione ulteriormente aggravata dal fatto che, spesso, chi soffre di depressione non è consapevole della propria condizione e quindi non si cura. Al tasso di crescita della depressione si aggiunge quello, ancora più triste e preoccupante, del numero di suicidi. Negli ultimi trent’anni, all’interno dei Paesi membri dell’Ocse il tasso dei suicidi è cresciuto in media del 10%. Nel mondo, ogni anno, quasi un milione di persone si toglie la vita. E questo sembra essere un fenomeno che colpisce i Paesi più ricchi, piuttosto che quelli più poveri. Negli Stati Uniti, i casi di suicidio sono circa quarantamila all’anno, più del doppio degli omicidi, e il numero di suicidi ha superato gli incidenti stradali come principale causa di morte nella prima adolescenza. Negli ultimi dieci anni le morti per incidenti stradali si sono dimezzate, mentre quelle per suicidi sono raddoppiate. Tra il 2005 e il 2015, in Inghilterra, il numero di suicidi tra gli studenti è raddoppiato e il numero di studenti con problemi mentali è quintuplicato. Nel 1985, in una Corea del Sud povera e sotto la presidenza autoritaria di Chun Doo-hwan, il tasso di suicidi era pari a nove sudcoreani su cento mila. Oggi invece, in una Corea del Sud ricca e sviluppata, il tasso di suicidi è più che triplicato. Ancora più grave è la situazione in Giappone dove il governo è stato costretto a mettere in atto una politica di emergenza per contenere il proliferare di siti internet dove aspiranti suicidi possono conoscersi, incontrarsi e attuare insieme il loro piano mortale.

Questi numeri si potrebbero spiegare con la nostra incapacità di affrontare il negativo. In un mondo di positività indotta (e quindi tossica) stiamo perdendo la capacità di accettare ed elaborare le difficoltà, le debolezze e tutto quello che potrebbe renderci più vulnerabili verso gli altri e, soprattutto, verso noi stessi. Sui Social vediamo vite artificialmente perfette e ci sentiamo in colpa se la nostra vita non è all’altezza di una fotografia o di un video cui abbiamo appena messo un cuoricino su Instagram.

Nel suo bestseller “Thinking, Fast and Slow” Daniel Kahneman scrive: «Se ti fosse concesso di augurare qualcosa di bello a tuo figlio, potresti seriamente considerare di augurargli l’ottimismo. Gli ottimisti sono in genere più allegri e felici, e quindi simpatici a tutti, sono adattarsi con duttilità ai fallimenti e ai sacrifici, hanno una ridotta possibilità di ammalarsi di depressione clinica, sono dotati di un sistema immunitario più forte […] e hanno più probabilità di vivere più a lungo». Da ottimista quale sono, non posso che sottoscrivere ogni parola. Tuttavia c’è un risvolto negativo. L’ottimismo funziona se non perdiamo di vista la realtà e non fingiamo che tutto vada bene anche quando nulla va bene. Perché proprio qui l’ottimismo si trasforma in positività tossica.

Essere ottimisti non vuol dire reprimere le proprie emozioni negative o ignorarle. Vuol dire affrontarle, dandoci il tempo di comprenderle e metabolizzarle. Non vuol dire sorridere sempre ed essere sempre d’accordo con tutti. Vuol dire mettersi in discussione e avere il coraggio di cambiare o, se serve, chiedere scusa. Non vuol dire non avere problemi, ma al contrario cercare sempre nuovi problemi da risolvere, perché l’essere umano è nato per risolvere problemi. Risolve problemi dall’inizio dei tempi. L’assenza di problemi da risolvere o di avversità da affrontare va contro la nostra stessa natura e ci rende tristi, depressi e frustrati. Avere un problema da risolvere, piccolo o grande che sia invece, ci tiene motivati e attivi.

Potremmo quindi sostituire la positività tossica con la negatività salubre. Al posto di reprimere le emozioni e le esperienze negative, accettarle e usarle come leva per vivere una vita più significativa e coltivare la nostra agilità emotiva.