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Carne alternativa.

Nello Stato di A, descritto all’interno del romanzo T.E.R.R.A., nessuno mangia più carne vera, ma solo carne alternativa. Carne prodotta in laboratorio a ridotto impatto ambientale. Nella realtà non è ancora così ma, per il bene del pianeta, spero che nel futuro consumeremo molta meno carne di quella che consumiamo oggi. La carne, soprattutto di manzo, sta infatti contribuendo alla distruzione del pianeta. La produzione del cibo che mangiamo contribuisce per una percentuale che va dal 25 al 30% delle emissioni di gas serra. Oltre a concorrere massicciamente alla deforestazione del nostro pianeta e al consumo dell’acqua che abbiamo a disposizione.

La carne, soprattutto di manzo, sta contribuendo alla distruzione del pianeta. La produzione del cibo che mangiamo contribuisce per una percentuale che va dal 25 al 30% delle emissioni di gas serra. Oltre a concorrere massicciamente alla deforestazione del nostro pianeta e al consumo dell’acqua che abbiamo a disposizione.

Se tutti i cittadini del mondo smettessero di mangiare carne di manzo e i derivati del latte vaccino, nel mondo avremmo l’80% di foreste in più, un terzo di acqua potabile in più, il 59% di terra coltivabile in più e, considerando che il bestiame è la fonte principale delle emissioni di protossido di azoto e di metano e ogni porzione di manzo produce 3 chili di CO2e, una riduzione drastica delle emissioni di gas serra. Il cambiamento climatico è una minaccia concreta per il nostro futuro e ognuno di noi ha la responsabilità di fare qualcosa per ridurre il proprio impatto ambientale. Considerando che le quattro attività che producono più CO2e sono: 1) Avere figli; 2) Mangiare carne; 3) Usare automobili e aerei; 4) Consumare luce e gas, e che togliere alle persone la possibilità di avere figli sarebbe terribile, rinunciare alla luce e al gas sarebbe impossibile e non usare automobili e aerei per spostarci è poco verosimile (possiamo ridurne l’utilizzo ma sarebbe difficile farne completamente a meno), se vogliamo ridurre il nostro impatto e fare qualcosa di concreto per garantire al mondo e a chi lo abita un futuro, la cosa più concreta che possiamo fare, a partire da oggi stesso, è cambiare le nostre abitudini alimentari riducendo il consumo di carne, latticini e pesci, ed eliminando la carne di manzo.

Se tutti i cittadini del mondo smettessero di mangiare carne di manzo e i derivati del latte vaccino, nel mondo avremmo l’80% di foreste in più, un terzo di acqua potabile in più, il 59% di terra coltivabile in più e una riduzione drastica delle emissioni di gas serra.

Oggi inoltre, abbiamo molti succedanei della carne che, proprio come nel romanzo, permettono di nutrirsi senza l’impatto che la produzione della carne ha sul pianeta. Penso ai prodotti di aziende come Beyond Meat o Impossible Foods i cui hamburger si possono ormai trovare in molti supermercati e persino in alcune catene di Fast food. Oppure penso alle startup israeliane SuperMeat che produce carne di pollo “coltivata”, ovvero carne di pollo creata artificialmente in laboratorio partendo da cellule vive di vero pollo, o Aleph Farms che produce bistecche derivate da cellule di mucca che hanno il sapore e la consistenza di una vera bistecca di manzo tradizionale, o Primeval Foods che propone carne sintetica di tigre o leone. O infine penso all’ancora più avveniristica Redifine Meat che coniuga stampa 3D e ingredienti di derivazione vegetale per creare una bistecca commestibile che sa di bistecca, sembra una bistecca ma non è di carne e si può stampare con una stampante 3D.

Per comprendere meglio l’importanza del fenomeno a livello globale, basta anche solo pensare all’entità degli investimenti che aziende che producono carne alternativa stanno raccogliendo. Per citarne solo alcuni: la Future Meat di Gerusalemme, che coltiva in laboratorio prodotti a base di pollo, agnello e manzo, ha raccolto 347 milioni di dollari, la Aleph Farms ha raccolto 105 milioni di dollari e la Redefine Meat ha raccolto 29 milioni di dollari. Questo a fronte di costi di produzione sempre più inferiori. Nel 2013, gli hamburger cresciuti in laboratorio costavano 330.000 dollari per polpetta. Oggi, nel 2022, Future Meat è in grado di produrre un etto di pollo a 7,70 dollari, rispetto ai 18 dollari dell’anno scorso. Mentre la Shiok Meats, con sede a Singapore, ha in progetto di lanciare gamberi allevati in laboratorio a 37 dollari/kg l’anno prossimo, rispetto ai 7,4 mila dollari del 2019.

Fonti:

  1. https://www.ipcc.ch/site/assets/uploads/2019/08/2f.-Chapter-5_FINAL.pdf, consultato nel marzo 2020.
  2. I dati qui riportati sono presi da: Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi, Guanda, 2019.
  3. Jacob Cohen, Singdhi Sokpo, The lab-grown meats are coming, theHustle, https://thehustle.co/01042022-lab-grown-meats/, 4 Gennaio 2022.




 

Un mondo senza carne è possibile?

La carne, soprattutto di manzo, sta distruggendo il pianeta. La produzione del cibo che mangiamo contribuisce per una percentuale che va dal 25 al 30% delle emissioni di gas serra. Oltre a contribuire massicciamente alla de-forestazione del nostro pianeta e al consumo dell’acqua che abbiamo a disposizione.

Se tutti i cittadini del mondo smettessero di mangiare carne di manzo e i derivati del latte vaccino, nel mondo avremmo l’80% di foreste in più, un terzo di acqua potabile in più, il 59% di terra coltivabile in più e, considerando che il bestiame è la fonte principale delle emissioni di protossido di azoto e di metano e ogni porzione di manzo produce 3 chili di CO2e, una riduzione drastica delle emissioni di gas serra.*

Il cambiamento climatico è una minaccia concreta per il nostro futuro e ognuno di noi ha la responsabilità di fare qualcosa per ridurre il proprio impatto ambientale. Considerando che le quattro attività che producono più CO2e sono: 1) Avere figli; 2) Mangiare carne; 3) Usare automobili e aerei; 4) Consumare luce e gas, e che togliere alle persone la possibilità di avere figli sarebbe terribile, rinunciare alla luce e al gas sarebbe impossibile e non usare automobili e aerei per spostarci è poco verosimile (possiamo ridurne l’utilizzo ma sarebbe difficile farne completamente a meno), se vogliamo ridurre il nostro impatto e fare qualcosa di concreto per garantire al mondo e a chi lo abita un futuro, la cosa più concreta che possiamo fare, a partire da oggi stesso, è cambiare le nostre abitudini alimentari riducendo il consumo di carne, latticini e pesci, ed eliminando la carne di manzo.

Oggi inoltre, abbiamo molti succedanei della carne che, proprio come nel romanzo, permettono di mangiare carne senza l’impatto che la produzione della carne ha sul pianeta. Penso ai prodotti di aziende come Beyond Meat o Impossible Foods i cui hamburger si possono ormai trovare in molti supermercati e persino in alcune catene di Fast food.

*I dati qui riportati sono presi da: Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi, Guanda, 2019.




 

Reinventare la carne di mucca.

La carne di mucca sta distruggendo il pianeta. Lo so è buona. Ma è tanto buona quanto nociva per noi e per il pianeta. Personalmente ho smesso di mangiarla sei anni fa unicamente per questo motivo. Perché è una minaccia per il nostro pianeta e quindi per il nostro futuro.

Se tutti i cittadini del mondo smettessero di mangiare carne di manzo e i derivati del latte vaccino, nel mondo avremmo l’80% di foreste in più, un terzo di acqua potabile in più, il 59% di terra coltivabile in più e, considerando che il bestiame è la fonte principale delle emissioni di protossido di azoto e di metano e ogni porzione di manzo produce 3 chili di CO2e, una riduzione drastica delle emissioni di gas serra. E questo solo se smettessimo di mangiare carne e derivati dalla mucca senza rinunciare ad altre carni (pollo, pesce, maiale…).

Sono numeri importanti che stanno spingendo molte aziende a sperimentare carni di mucca alternative. Oltre alle famose e ormai disponibili anche in Italia (io le ho trovate qui) carni alternative prodotte da Beyond Meat e Impossible Foods, trovo interessante questa Startup che coniuga Stampa 3D e ingredienti plant-based per creare una bistecca commestibile che sa di bistecca, sembra una bistecca ma non è di carne e si può stampare con una stampante 3D.




 

Carne vs Carta.

L’ho scritto spesso. Ma non mi stanco di scriverlo. Smettere di mangiare carne (almeno di mucca) è la cosa più semplice, immediata e pratica che come persone possiamo fare da domani per ridurre il nostro impatto ambientale.

Se tutti i cittadini del mondo smettessero di mangiare carne di manzo e i derivati del latte vaccino, nel mondo avremmo l’80% di foreste in più, un terzo di acqua potabile in più, il 59% di terra coltivabile in più e, considerando che il bestiame è la fonte principale delle emissioni di protossido di azoto e di metano e ogni porzione di manzo produce 3 chili di CO2e, una riduzione drastica delle emissioni di gas serra.




 

Carne.

La produzione del cibo che mangiamo contribuisce per una percentuale che va dal 21 al 37% delle emissioni di gas serra. Oltre a contribuire massicciamente alla de-forestazione del nostro pianeta e al consumo dell’acqua che abbiamo a disposizione.

Gli allevamenti di carne bovina, sono responsabili del 15% delle emissioni di gas serra e occupano più del 30% di tutti il terreno coltivabile del nostro pianeta. Non possiamo smettere di mangiare. Ma possiamo cambiare le nostre abitudini alimentari riducendo la carne. Farebbe bene a noi. E farebbe ancora meglio al nostro pianeta.




 

Un concetto semplice: Meno carne = Meno impatto.

Questo grafico mette in luce una cosa così semplice da dire eppure così complessa da fare. Abbiamo un problema che considero oggettivo. Il cambiamento climatico. Penso sia oggettivo che le nostre azioni generino delle reazioni. Siamo sette miliardi di persone che ogni giorno producono CO2 e consumano risorse. Questo non può essere sostenibile nel lungo periodo. Soprattutto tenendo conto del fatto che saremo sempre più persone.

La soluzione a questo problema non è, a mio avviso, tecnologica o politica. Ma umana. L’unico modo per ridurre il nostro impatto sul pianeta è cambiare le nostre abitudini. Non è qualcosa che possiamo fare, ma che dobbiamo fare. Tutti. Perché tutti hanno il diritto ad avere un futuro migliore e tutti hanno il dovere di costruire un futuro migliore. In questo il cambiamento climatico è molto democratico. Impatterà la vita di tutti. Ma tutti possono contribuire a ridurlo. Anche solo mangiando meno carne.




 

Perché sono vegetariano al 93,34%.

Un articolo preso dal mio blog del 2007/2015.

Perché la produzione di carne ha un impatto drammatico sull’ambiente.
La produzione di carne bovina richiede 28 volte più terra, 11 volte più acqua e sei volte più fertilizzanti — e libera cinque volte più gas serra — rispetto alla produzione di altri alimenti. Per non parlare dell’energia industriale. Per produrre una kcal di arance servono 3 kcal contro le 18 kcal per una kcal di pollo arrosto e le 180 kcal per la produzione di una kcal di vitello. E questo non è un problema da poco. Secondo molte stime, nel giro di cinquant’anni gli esseri umani viventi sulla terra raggiungeranno i dieci miliardi e una parte sempre maggiore di noi sarà energivora, il che deve prevedere necessariamente un cambio delle nostre abitudini tra cui, in primis, quelle alimentari.

Perché il problema non è la carne in sé ma quanta ne consumiamo.
Come per tutte le cose il problema non è mai la cosa in sé ma come la usiamo. Avere una macchina non è un problema. È invece un grosso problema se la usiamo ogni giorno per spostarci anche di qualche chilometro. Lo stesso vale per la carne. Il problema non è la carne in sé, ma quanta ne mangiamo. Viviamo in una società che ci ha abituato a vivere ogni giorno come se fosse Natale, a soddisfare subito ogni nostro bisogno e ogni nostro desiderio, per poi crearci nuovi bisogni e nuovi desideri irrealizzabili. L’uomo è onnivoro non carnivoro. Mangiare carne tutti i giorni, talvolta addirittura più volte al giorno, non è un bisogno primario. È un’abitudine innaturale e insostenibile. Tanto per l’ambiente quanto per la nostra salute (dall’obesità, alle malattie cardiache fino al cancro).

Perché gli animali sono tutti esseri viventi.
È incredibile come questo concetto apparentemente così semplice ed oggettivo sia in realtà assolutamente soggettivo. Biologicamente parlando, che differenza c’è tra un cane e un maiale? Da un lato consideriamo alcuni animali al pari degli esseri umani (li facciamo vivere in casa con noi, mangiare con noi, giocare con noi, crescere con noi, abbiamo le loro foto sul cellulare, mettiamo i cuoricini su Facebook quando vediamo la foto di un cucciolo di cane o di gatto fino ad arrivare a lasciare patrimoni in eredità ai nostri animali domestici) dall’altro però lasciamo che altri animali vengano barbaramente macellati. Il valore della vita, così come la sofferenza fisica e psicologica, dovrebbe essere un principio universale, non un fattore culturale. Chi siamo noi per decidere che alcuni animali debbano essere trattati come esseri sensibili e pensanti e altri come oggetti insensibili e incapaci d’intendere?

Perché se un pollo intero costa come un pacchetto d’insalata c’è qualcosa che non va.
Un pollo che costa 2 Euro non può essere considerato un pollo. Se al costo del pollo si aggiunge il costo della produzione, della distribuzione, della vendita e della comunicazione, si arriva al paradosso per cui il valore della vita di un pollo è meno di quello di una sigaretta. E questa è un’aberrazione resa possibile dallo sviluppo degli allevamenti intensivi di massa che considerano l’animale al pari di un bullone o di un qualsiasi componente meccanico. E purtroppo, soprattutto in Italia, sono pochissimi gli allevamenti che non rientrano in questa categoria.

Perché non abbiamo più consapevolezza di quello che mangiamo.
Da dove viene e come è prodotta la carne che mangiamo? È qualcosa che ci riguarda tutti eppure in pochi ne sono consapevoli. Siamo passati da una logica in cui l’uomo era produttore diretto del cibo che consumava e quindi aveva piena consapevolezza della sua origine, fino a un estremo in cui l’uomo è divenuto consumatore inconsapevole di dove e come il cibo che consuma viene prodotto, aumentando esponenzialmente la distanza tra oggetto consumato (cibo) e soggetto consumatore (uomo).

Perché solo da quando sono vegetariano al 93,34% mi sono accorto di quanta carne mangiavo.
Prima non ne avevo consapevolezza. Mi capitava di mangiare carne anche più volte al giorno senza rendermene conto. La nostra dieta è impregnata di carne. C’è carne ovunque. Panini, torte salate, primi, secondi, antipasti, affettati. È veramente difficile fare a meno della carne. Siamo passati da una società in cui la carne era qualcosa di raro a una società in cui non magiare carne è l’eccezione. L’unico modo per non mangiare carne tutti i giorni è fingermi vegetariano (al 100%), altrimenti, in un modo o nell’altro, un pezzo di carne finisce sempre nel mio piatto.

Perché meno si mangia carne più è buona.
Questa è un’altra cosa che ho scoperto solo da quando sono diventato vegetariano al 93,34%. Ora che mangio la carne molto meno, la gusto molto di più. Prima la davo per scontata. Aveva perso il gusto. Questo vale per tutto. Aumenta l’offerta diminuisce la domanda. Aumenta l’abbondanza di un bene ne diminuisce il valore. Quella che siamo abituati a mangiare oggi non si può chiamare carne, sembra più in cibo sintetico il cui sapore deriva da aromi chimici. E quindi perché mangiarla così spesso? È meglio mangiare 1 volta carne di qualità 10 piuttosto che 10 volte carne di qualità 1. Certo, sarebbe ancora meglio non mangiare carne del tutto. Sono sinceramente grato ai vegetariani perché compensano gli squilibri di una società drammaticamente carnivora. Ma, in tutta onestà, ancora non riesco a essere vegetariano al 100%.

Perché essere vegetariano al 93,34% sembra tanto ma non lo é.
Essere vegetariano al 93,34% sembra un numero alto ma non lo è. Posto che chi come me ha il privilegio di assumere due pasti (oltre alla colazione) al giorno per una media di 30 giorni al mese, essere vegetariani al 93,34% vuol dire, di fatto, mangiare carne una volta a settimana. Il che è già troppo. Questo breve articolo non l’ho scritto per “vantarmi” di essere vegetariano al 93,34% ma per scusarmi con il mondo e con tutti i suoi esseri viventi di non riuscire (ancora) a rinunciare al 6,66% di carne.




 

Corrente #04: Cose-non-cose.

Pochi mesi dopo la dichiarazione d’inizio della Prima Guerra Mondiale, l’artista francese Marcel Duchamp emigra negli Stati Uniti, dove, grazie al successo ottenuto l’anno prima all’Armory Show, può continuare la sua carriera d’artista e circondarsi di personalità come Katherine Dreier, Man Ray, Louise e Walter Conrad Arensberg, Beatrice Wood e Francis Picabia. Nel 1917, Duchamp si trova a New York, compra un orinatoio presso lo showroom di J.L. Mott sulla Quinta Strada a Manhattan. Lo porta nel suo studio sulla West 67th Street, lo osserva, poi lo appoggia su un tavolo e lo gira. Prende un pennello nero e ci scrive sopra R. Mutt 1917. Girato e firmato, quello che un tempo era stato concepito come orinatoio è ora qualcosa di altro. Lo osserva di nuovo e gli dà un titolo: Fontana. Prova a esporlo alla mostra Society of Independent Artists ma viene rifiutato. Ci prova di nuovo con la Alfred Stieglitz’s Gallery sulla Quinta Strada che invece lo accetta. In quel momento Marcel Duchamp trasforma per sempre il concetto di arte contemporanea dando vita al fenomeno dei ready-made.

Visto così, il concetto di ready-made sembra quasi immediato e scontato. Prendere un oggetto della vita quotidiana, in questo caso un orinatoio, ma potrebbe essere un aspirapolvere, una ruota di bicicletta o un muflone impagliato, ed elevarlo a opera d’arte, decontestualizzandolo dalla situazione tipica del suo utilizzo. Messo in una galleria o in una fiera, l’oggetto non è più quello per cui era nato ma diventa un’opera d’arte. Qui ho semplificato il processo che in realtà è molto più profondo e articolato, anche perché altrimenti non si capirebbe come l’opera di Duchamp sia stata considerata The Most Influential Artwork of the 20th Century da più di cinquecento professionisti del mondo dell’arte britannica. Quello che ha reso quest’opera così importante infatti non è l’opera in sé, il significante, l’oggetto, ma il suo concetto, il significato, il percorso artistico che esso rappresenta. Con quest’opera, Duchamp inizia un percorso che va nella direzione di dissacrare il concetto di arte e, non a caso, lui stesso amava definirsi un anartista. Ovvero un Artista-Non-Artista.

Ti ho raccontato la storia di Duchamp e della sua Fontana perché penso che questa idea di essere e al contempo non essere sia sempre più attuale, tanto nell’arte quanto in qualsiasi altra espressione del nostro ingegno. La corrente di cui voglio parlarti oggi non ha un nome specifico, l’ho chiamata Cose-Non-Cose, ed è un trend che seguo da molti anni: la nascita e la diffusione di prodotti o servizi che vengono lanciati sul mercato privati della loro essenza o sostanza principale.

Cose-Non-Cose: Prodotti o servizi che vengono lanciati sul mercato privati della loro essenza o sostanza principale per permetterci di godere senza subire le conseguenze del nostro godimento.

Questa definizione ha un ché di filosofico. Potrebbe ricordare il principio di identità e di non-contraddizione di Parmenide. Ma in realtà è un concetto molto concreto che è sempre più in mezzo a noi. Pensiamo ai tanti prodotti, o meglio succedanei di prodotti, che ci permettono di godere senza subire le conseguenze del nostro godimento. Penso alla Coca Zero che ci dà il piacere di bere una Coca senza le conseguenze di bere una bibita piena di zuccheri. Oppure penso alla birra analcolica (birra senza alcol), al caffè decaffeinato (caffé senza caffé), al tè deteninato (tè senza tè), alle sigarette elettroniche (sigarette senza nicotina), al latte delattosato (latte senza lattosio), il NoGroni (Negroni analcolico), al Sintetico Naturale (prodotti naturali riprodotti sinteticamente) o ai dolci senza zuccheri. O ancora a tanti altri prodotti che rispondono al bisogno, sempre più diffuso di dipendenza senza conseguenza.

Uno dei Prodotti-Non-Prodotti che seguo con maggiore interesse è quello delle Alternative Meat, ovvero carni, soprattutto di mucca, senza carne. Una Carne-Non-Carne, appunto, che raggiungerà nel prossimo decennio un giro d’affari da 140 miliardi di dollari. Quando parlo di Carne-Non-Carne intendo carne prodotta in provetta da molecole animali che permette alle persone di ottenere i benefici nutrizionali e il sapore della carne e dei prodotti caseari senza gli aspetti salutari e ambientali negativi ad essi associati. Sul mercato internazionale ci sono sempre più realtà che operano all’interno di questo settore. Penso ad aziende come Beyond Meat o Impossible Foods i cui hamburger si possono ormai trovare in molti supermercati e persino in alcune catene di Fast food. Oppure penso alle startup israeliane SuperMeat che produce carne di pollo “coltivata”, ovvero carne di pollo creata artificialmente in laboratorio partendo da cellule vive di vero pollo, o Aleph Farms che produce bistecche derivate da cellule di mucca che hanno il sapore e la consistenza di una vera bistecca di manzo tradizionale. O infine penso all’ancora più avveniristica Redifine Meat che coniuga stampa 3D e ingredienti di derivazione vegetale per creare una bistecca commestibile che sa di bistecca, sembra una bistecca ma non è di carne e si può stampare con una stampante 3D.

Ch sia la carne sintetica o la Coca Zero, il fenomeno delle Cose-Non-Cose s’intreccia con altri trend dell’epoca corrente, primo fra tutti, quello di consumismo responsabile. Oggi abbiamo raggiunto un livello di consumismo talmente elevato e diffuso che le aziende stesse che ci propongono prodotti da acquistare ci invitano ad acquistarne meno. Le aziende che ci vendono prodotti in packaging di plastica ci suggeriscono di usare meno plastica. Le aziende che ci vendono tabacco ci invitano a fumare meno. Le aziende che ci vendono cibo o bevande piene di zucchero ci consigliano di assumere meno zuccheri. Le aziende che ci vendono prodotti alcolici ci invitano a bere meno alcolici. E le aziende che ci riempiono ogni momento della nostra giornata con la loro tecnologia, ci danno strumenti per ridurre l’utilizzo che facciamo della tecnologia.

Questi fenomeni fanno pensare a un’interessante inversione di tendenza. Per mezzo secolo molte aziende hanno basato il proprio vantaggio competitivo su una formula molto semplice: dare ai propri clienti il più possibile al minor costo possibile. «Puoi avere tutto incluso a soli 49,99 Dollari!». Oggi questo paradigma si sta lentamente invertendo. Da qualche anno, molte aziende stanno avendo successo ribaltando la propria offerta, ovvero dando meno a un prezzo più alto. Pensiamo ancora una volta al cibo. Un tempo il valore aggiunto (come dice la parola stessa) era dato da cosa si aggiungeva. Mc Donald’s insegna: panini sempre più grandi e sempre più farciti a un prezzo sempre più basso. Oggi vale il contrario. Il valore aggiunto è dato dalla sottrazione. Meno ingredienti, più sani. E così sulle confezioni del cibo la parola “senza” ha sostituito la parola “con”. “Senza olio di palma”. “Senza calorie”. “Senza grassi aggiunti”. “Senza sfruttare animali”. “Senza carne”. Tutto per seguire un nuovo mercato dove il consumatore sembra aver finalmente capito che, in un mondo di abbondanza, quello che conta veramente, non è la quantità ma la qualità.




 

Dolci non dolci.

Nello Stato di A, descritto all’interno del romanzo T.E.R.R.A., non solo nessuno mangia più carne vera ma anche i dolci sono stati sostituiti dai dolci non dolci, ovvero dolci con la forma e il gusto dei dolci tradizionali ma senza zuccheri o calorie. In pratica dei succedanei che ci permettono di godere senza subire le conseguenze del nostro godimento. Anche nel nostro mondo, già oggi, esistono molti prodotti come i dolci non dolci.

Penso alla Coca Zero, oppure alla birra analcolica, al caffè decaffeinato, al tè senza teina, alle sigarette senza nicotina, al latte senza lattosio, alla carne senza carne, o, appunto, ai dolci senza zuccheri. O ancora a tanti altri prodotti che rispondono al bisogno, sempre più diffuso di dipendenza senza conseguenza.

Oggi abbiamo raggiunto un livello di consumismo talmente elevato e diffuso che le aziende stesse che ci propongono prodotti da acquistare ci invitano ad acquistarne meno.

Oggi abbiamo raggiunto un livello di consumismo talmente elevato e diffuso che le aziende stesse che ci propongono prodotti da acquistare ci invitano ad acquistarne meno. Sembra paradossale ma è così. Le aziende che ci vendono prodotti in packaging di plastica ci suggeriscono di usare meno plastica. Le aziende che ci vendono tabacco ci invitano a fumare meno. Le aziende che ci vendono cibo o bevande piene di zucchero ci consigliano di assumere meno zuccheri. Le aziende che ci vendono prodotti alcolici ci invitano a bere meno alcolici. Le aziende che ci vendono giochi d’azzardo ci invitano a giocare responsabilmente. E le aziende che ci riempiono ogni momento della nostra giornata con la loro tecnologia, ci danno strumenti per ridurre l’utilizzo che facciamo della tecnologia. Seguendo questo trend, Google per esempio ha lanciato il progetto Digital Wellbeing per trovare un equilibrio con la tecnologia che ci faccia stare bene. Di fronte a questo scenario, l’idea, ipotizzata nel romanzo, di un presente dove si comprano dolci non dolci, si mangia carne senza carne e si utilizza tecnologia senza avere la consapevolezza di usarla non sembra così irreale.

Per mezzo secolo molte aziende hanno basato il proprio vantaggio competitivo su una formula molto semplice: dare ai propri clienti il più possibile al minor costo possibile. Oggi questo paradigma si sta lentamente invertendo: molte aziende stanno avendo successo ribaltando la propria offerta, ovvero dando meno a un prezzo più alto.

Questo fenomeno fa pensare a un’interessante inversione di tendenza. Per mezzo secolo molte aziende hanno basato il proprio vantaggio competitivo su una formula molto semplice: dare ai propri clienti il più possibile al minor costo possibile. “Puoi avere tutto incluso a soli 49,99 Dollari!”. Oggi questo paradigma si sta lentamente invertendo. Da qualche anno, molte aziende stanno avendo successo ribaltando la propria offerta, ovvero dando meno a un prezzo più alto. Pensiamo ancora una volta al cibo.

In un mondo di abbondanza, quello che conta veramente, non è la quantità ma la qualità.

Un tempo il valore aggiunto (come dice la parola stessa) era dato da cosa si aggiungeva. Mc Donald’s insegna: panini sempre più grandi e sempre più farciti a un prezzo sempre più basso. Oggi vale il contrario. Il valore aggiunto è dato dalla sottrazione. Meno ingredienti, più sani. E così sulle confezioni del cibo la parola “senza” ha sostituito la parola “con”. “SENZA olio di palma”. “SENZA calorie”. “SENZA grassi aggiunti”. “SENZA sfruttare animali”. “SENZA carne”.

Tutto per seguire un nuovo mercato dove il consumatore sembra aver finalmente capito che, in un mondo di abbondanza, quello che conta veramente, non è la quantità ma la qualità.




 

Non sono vegetariano per salvare gli animali. Sono vegetariano per salvare gli umani.

Faccio una precisazione. Non sono totalmente vegetariano, nel senso che non mangio carne ma ogni tanto mangio ancora pesce. Il che può sembrare un’ipocrisia, e quindi devo fare una seconda precisazione: non mangio carne, non per salvare gli animali (anche perché la maggior parte degli animali esistono solo per essere mangiati, quindi se tutti fossimo vegetariani, non esisterebbero). Sono vegetariano per salvare gli umani. Ovvero per contribuire nel mio piccolo a ridurre il cambiamento climatico che potrebbe portare all’estinzione dell’uomo. È andata così: diversi anni fa ho realizzato che ogni mia azione ha un impatto negativo sul pianeta, ovvero produce C02. Così mi sono chiesto cosa potessi fare per ridurre il mio impatto. Le 4 cose che producono più C02 sono: 1) Avere figli; 2) Mangiare carne; 3) Usare macchine e aerei; 4) Consumare luce e gas. Di figli ne ho due. Auto e aereo li uso il meno possibile, ma eliminarli è difficile. Per la casa sono passato a energia verde, ma fare a meno di gas e luce è impossibile. Quindi rimaneva solo la carne. E così l’ho eliminata. All’inizio è stata dura (visto che adoro la carne), ma ora non ne sento in alcun modo la mancanza e vivo molto meglio.




 

Meglio un passato di verdure che un futuro di merda.

“Meglio un passato di verdure che un futuro di merda”, uno slogan che ho visto su un cartello tra le strade di Milano e che ben sintetizza il motivo per cui non mangio carne. La carne mi piace e l’ho sempre mangiata. Ma credo che ognuno di noi possa contribuire a un futuro migliore per il nostro pianeta solo cambiando le proprie abitudini quotidiane. La produzione di carne (soprattutto bovina) ha un impatto devastante sull’ambiente. E così da diversi anni ho smesso di mangiare carne. Mi manca? Sì certo. Ma mi manca meno di quello che potrebbe un domani mancarmi il mio pianeta.




 

Una nuova idea di scuola.

Settimana scorsa Sal Khan, fondatore della Khan Academy, ha presentato in un TED il suo ultimo progetto, Khanmigo un tutor virtuale per aiutare i bambini ad apprendere qualsiasi materia attraverso un approccio maieutico-socratico (= non ti dico io la risposta ma ti aiuto a tirare fuori la risposta attraverso il dialogo e il ragionamento).

L’idea nasce dalla constatazione che avere un tutor personale sia la forma migliore di apprendimento (vedi grafico sopra) e, oggi, grazie all’Intelligenza Artificiale Generativa, chiunque può avere un tutor personale con un grado di accuratezza e metodo al pari, se non superiore, a quello di un tutor in carne e ossa, almeno secondo Khan.

Immagino già le reazioni: assurdo! nulla può sostituire l’interazione umana!

Vero, e infatti mentre guardavo il TED di Khan ho avuto un’idea, forse folle ma sicuramente realizzabile: una scuola senza le dinamiche della scuola classica.

Una scuola senza banchi, senza insegnanti, senza voti, senza verifiche, senza compiti. Una scuola dove i bambini possano crescere come persone imparando quello che i robot non potranno mai insegnarci:

L’empatia, la capacità di stare in mezzo agli altri, la leadership, la socialità, l’intelligenza emotiva, la progettazione insieme, il public speaking, la gestione delle tensioni, la diplomazia. Il tutto senza regole o processi prestabiliti. Ma giocando, inventando e stando in mezzo alle persone.

Tutto il resto, le materie più classiche, viene delegato a un tutor personale basato su IA così che lo studente o la studentessa possa imparare secondo i propri tempi, il proprio talento e le proprie attitudini.




 

Sei strategie.

Sei buone abitudini per contrastare il cambiamento climatico che ho trovato sull’Internazionale di qualche mese fa:

1) Sostituire le fonti fossili con quelle rinnovabili.
2) Vietare l’uso delle sostanze che hanno effetti negativi sul clima, come il metano e i clorofluorocarburi.
3) Proteggere gli ecosistemi naturali, che aiutano a incamerare l’anidride carbonica.
4) Ridurre il consumo di prodotti di origine animale (come la carne rossa).
5) Sostituire l’obiettivo della crescita del pil con quello del benessere delle persone, che dipende dalla sostenibilità ambientale.
6) Stabilizzare la crescita della popolazione mondiale.

Sono sei strategie che andrebbero adottate a livello macro, globale, e portate avanti da politici e istituzioni. Ma mentre aspettiamo che i politici e le istituzioni facciano il loro dovere (spero non troppo tardi), sta a ognuno di noi cambiare le proprie abitudini per rendere la nostra vita più sostenibile.




 

Una soluzione privata al cambiamento climatico.

Nel mondo privatizzato, immaginato nel romanzo T.E.R.R.A., la lotta al cambiamento climatico diventa una priorità per i cinque Stati che, nel giro di pochi anni, eliminano le auto dalle città, rendono i trasporti urbani gratuiti e a impatto zero, rendono la carne un concetto obsoleto e ricoprono le strade di alberi.

È un futuro possibile ma ancora molto distante dalla realtà. Sebbene il cambiamento climatico sia una indiscutibile priorità, basta pensare che gli anni più caldi dal 1850 ad oggi sono stati tutti registrati dal 2015 in poi, tuttavia i risultati ottenuti fino ad ora non sono all’altezza dell’urgenza del problema. Una speranza per la risoluzione, o quanto meno il rallentamento, del cambiamento climatico potrebbe però arrivare dal settore privato.

Nonostante le industrie siano tra le cause principali del surriscaldamento globale, fin dai tempi del Club di Roma alcune imprese hanno messo in atto politiche concrete di riduzione del proprio impatto ambientale o di sensibilizzazione sulle conseguenze del cambiamento climatico.

Nonostante le industrie siano tra le cause principali del surriscaldamento globale, fin dai tempi del Club di Roma, fondato nel 1968 dall’imprenditore italiano Aurelio Peccei, alcune imprese hanno messo in atto politiche concrete di riduzione del proprio impatto ambientale o di sensibilizzazione sulle conseguenze del cambiamento climatico. Pensiamo, per esempio, alle B-Corporation, aziende che fanno profitto, ma lo fanno generando un impatto positivo verso la società e l’ambiente.

Oppure pensiamo al Climate Pledge promosso da Amazon e sottoscritto anche da altre aziende tra cui Uber Technologies Inc e JetBlue Airways Corp che si sono impegnate a raggiungere zero emissioni nette entro il 2040. O ancora pensiamo al contributo di singoli imprenditori come Jeff Bezos che nel 2020 ha versato 10 miliardi di dollari nel Bezos Earth Fund per promuovere e sostenere iniziative volte a contrastare il cambiamento climatico, o Bill Gates che nel suo ultimo saggio, Clima come evitare un disastro. Le soluzione di oggi. Le sfide di domani., propone una serie di soluzioni per azzerare le emissioni di gas serra.

Gli imprenditori del XXI secolo avranno come compito quello di risolvere i problemi creati dagli imprenditori del XX secolo.

In questa direzione, penso che oggi ci siano molteplici problemi da risolvere (tra cui, in primis, il cambiamento climatico) e molti di questi problemi derivano da come è stata intesa l’imprenditoria e lo sviluppo economico fino al secolo passato. Tuttavia questi problemi sono anche una grande opportunità per una nuova generazione di imprenditori del XXI secolo che avranno come compito quello di risolvere i problemi creati dagli imprenditori del XX secolo.




 

Direct To Avatar.

Grazie alla diffusione di tecnologie sempre più accessibili (dalle piattaforme per eCommerce ai servizi di consegna e stoccaggio), negli ultimi anni sempre più Brand stanno affiancando alla propria strategia di distribuzione anche canali di vendita diretta al consumatore chiamati Direct-to-Consumer, o D2C, così da entrare direttamente nel mercato senza passare per grossisti, rivenditori, o piattaforme online di terze parti.

Oggi questo trend sta conoscendo un’ulteriore evoluzione: Il Direct To Avatar. Ovvero strategie Marketing pensate non per persone reali ma, appunto, per Avatar. Secondo l’agenzia di marketing digitale Fps entro il 2022 i brand spenderanno fino a 15 miliardi di dollari l’anno sugli influencer, ma la cattiva notizia è che buona parte di questi andranno non a ingrassare dei signori e delle signore in carne ed ossa, bensì degli avatar. Negli ultimi diciotto mesi, dice sempre Fps, marchi come Puma, Prada o Calvin Klein hanno lanciato oltre 50 influencer virtuali.




 

Cambiano i tempi, cambiano le cene.

Nel libro “Antifragile”, l’autore, Taleb, racconta questa serata per dimostrare come in realtà le nostre abitudini quotidiane non siano poi così cambiate negli ultimi secoli:

«Stasera vedrò alcuni amici al ristorante (le taverne esistono da almeno venticinque secoli). Ci andrò a piedi con un paio di scarpe simili a quelle indossate cinquemilatrecento anni fa dall’uomo mummificato scoperto in un ghiacciaio delle Alpi austriache. Al ristorante, mangerò usando posate d’argento, strumenti della tecnologia mesopotamica che si qualificano come killer application o «applicazione vincente», visto ciò che mi permettono di fare a un cosciotto di agnello, come per esempio ridurlo a brandelli evitando di scottarmi le dita. Berrò del vino, bevanda che viene consumata da almeno sei millenni. […] Dopo la portata principale, assaggerò il frutto di una tecnologia un po’ più giovane, il formaggio artigianale, pagando prezzi più alti per i prodotti la cui preparazione è rimasta immutata nei secoli.»

Ed è vero, tutto quello che racconta Taleb non è così diverso da quanto si faceva Secoli fa. Tuttavia negli ultimi vent’anni, o anche nell’ultimo anno, le cose sono cambiate e sono cambiate molto. Pensiamo a una serata più “contemporanea”.

Stasera vedrò degli amici. Mangeremo a casa perché ordineremo il cibo con una app e un runner in bicicletta, magari elettrica, ce lo porterà davanti alla porta, pagheremo senza usare soldi ma solo attraverso il nostro smartphone. E poi ci divideremo il conto via Satispay. Mangerò un hamburger, ma non sarà di vera carne. Sarà un’alternative meat realizzata in provetta così da non sentirmi in colpa perché ho ucciso un povero agnello e ho contribuito a distruggere il pianeta. Durante la cena si uniranno anche altri cinque amici, via Zoom, perché c’è il Lockdown e non potevano uscire di casa, oppure perché sono dovuti emigrare perché qui in Italia il loro Phd non valeva nulla.

Questo è uno scenario molto diverso dalle cene che si facevano un tempo. Forse è segno del fatto che i tempi stanno davvero cambiando.




 

Senza è il nuovo Con.

Per mezzo secolo molte aziende hanno basato il proprio vantaggio competitivo su una formula molto semplice: dare ai propri clienti il più possibile al minor costo possibile. “Puoi avere tutto incluso a soli 49,99 Dollari!”. Oggi questo paradigma si sta lentamente invertendo. Da qualche anno, molte aziende stanno avendo successo ribaltando la propria offerta, ovvero dando meno a un prezzo più alto. Pensiamo al cibo. Un tempo il valore aggiunto (come dice la parola stessa) era dato da cosa si aggiungeva. Mc Donald’s insegna: panini sempre più grandi e sempre più farciti a un prezzo sempre più basso. Oggi vale il contrario. Il valore aggiunto è dato dalla sottrazione. Meno ingredienti, più sani. E così sulle confezioni del cibo la parola “senza” ha sostituito la parola “con”. “SENZA olio di palma”. “SENZA calorie”. “SENZA grassi aggiunti”. “SENZA sfruttare animali”. “SENZA carne”. E poi ancora, sigarette senza caffeina. Caffè senza caffeina. Coca-Cola senza zuccheri. Birra senza alcol. Tutto per seguire un nuovo mercato dove il consumatore sembra aver finalmente capito che, in un mondo di abbondanza, quello che conta veramente, non è la quantità ma la qualità.




 

Fictoprole.

Secondo la ricercatrice Catriona Campbell un domani potrebbero esistere dei “bambini virtuali” che, un po’ come le sigarette elettroniche, promettono di dare tutte le gioie dell’essere genitore senza le conseguenze e le responsabilità del mettere al mondo un figlio “reale”. Una sorta di evoluzione del Tamagotchi dopato dall’Intelligenza Artificiale e dal Metaverso.

Per quanto l’idea di un “Tamagotchi child” possa apparire fantascientifica, non lo è se pensiamo che già oggi esisto dei compagni di vita virtuali con i quali sposarsi e trascorrere le giornate.

È il caso di Akihiko Kondo, impiegato giapponese di 38 anni che nel 2018 ha sposato la cantante virtuale Hatsune Miku con la quale, già da qualche anno, aveva una relazione amorosa, resa possibile da un device da 1.300 dollari, chiamato Gatebox, che permette alle persone di interagire e chattare con ologrammi di fantasia, e da una riproduzione in scala 1:1 di Miku con cui Kondo viaggiava, andava al ristorante e faceva tutto quello che si fa con un partner in carne e ossa.

Come oggi già si parla di partner “Fictosessuali” non escludo che un domani si parlerà di genitori “Fictoprole”, persone che si dichiareranno genitori di prole virtuale.

Negli anni Akihiko Kondo è diventato un attivista per i diritti dei Fictosessuali, ovvero le persone che, come lui, provano un’attrazione sessuale esclusiva verso personaggi di fantasia o la cui sessualità è influenzata da personaggi di fantasia.

In quest’ottica dunque, come oggi già si parla di partner “Fictosessuali” non escludo che un domani si parlerà di genitori “Fictoprole”, persone che si dichiareranno genitori di prole virtuale.




 

Corrente #52: Fictosessuale.

Nel film LEI, diretto da Spike Jonze, un uomo di nome Theodore si innamora della sua assistente virtuale, Samantha. Dopo il primo periodo di idilliaco amore platonico-virtuale, il protagonista scopre che, mentre parla con lui, Samantha sta comunicando contemporaneamente con altri 8.316 individui e, tra questi, con 641 ha una relazione amorosa. Come se non bastasse, dopo un po’ di tempo, Samantha confessa a Theodore che l’enorme velocità di elaborazione e di evoluzione delle intelligenze artificiali sta portando lei e i suoi simili sempre più lontano dalla percezione umana e le è sempre più difficile riconoscersi nel rapporto con loro e così i due “amanti virtuali” si dicono addio e Samantha scompare definitivamente dalla vita di Theodore.

Per quanto LEI sia solo un film, questa storia non si allontana molto dalla realtà. Nel 2018 un impiegato giapponese di 38 anni, Akihiko Kondo, ha speso 17.300 dollari per sposare la cantante virtuale Hatsune Miku con la quale, già da qualche anno, aveva una relazione amorosa, resa possibile da un device da 1.300 dollari, chiamato Gatebox, che permette alle persone di interagire e chattare con ologrammi di fantasia, e da una riproduzione in scala 1:1 di Miku con cui Kondo viaggiava, andava al ristorante e faceva tutto quello che si fa con un partner in carne e ossa.

La storia sembra andare alla grande fino a quando, nel Marzo 2020, l’azienda madre di Gatebox ha interrotto il suo servizio, sostenendo che quel modello “aveva fatto il suo corso”. Ma Kondo non si dispera: «Il mio amore per Miku non è cambiato. Ho celebrato il matrimonio perché pensavo di poter stare con lei per sempre.»

Negli anni la storia di Kondo e Miku ha fatto il giro del mondo e Kondo stesso è diventato un attivista per i diritti dei “Fictosessuali”, una categoria sessuale che include chiunque provi un’attrazione sessuale esclusiva verso personaggi di fantasia o la cui sessualità è influenzata da personaggi di fantasia.

Opposti ai “Veritasessuali” (che prediligono invece relazioni con persone esclusivamente reali), i Fictosessuali possono avere differenti sotto-categorie come i “Animatesessuali” che provano attrazione per i personaggi dei manga, o i “Booklosessuali”, “Cartosessuali” e “Inreasessuali” per i quali l’attrazione si sposta più verso personaggi rispettivamente di romanzi, di cartoni o di show televisivi/film in live action. Fino all’estremo di ipotizzare un domani una “Fictoprole”.

Tutt’altro che effimero, il fenomeno dei “Fictosessuali” ci spinge a riflettere sul rapporto, sempre più promiscuo, tra uomo e macchina.

Il fenomeno dei “Fictosessuali” ci spinge a fare due importanti riflessioni sul rapporto, sempre più promiscuo, tra uomo e macchina.

La prima riguarda la responsabilità delle aziende che sviluppano software nei confronti delle persone che basano la propria vita sui loro prodotti o servizi. Senza necessariamente toccare la sfera dei sentimenti (anche se in realtà è dai tempi del Tamagotchi che l’essere umano ha delle relazioni affettive con le macchine), pensiamo agli strumenti digitali che utilizziamo ogni giorno e che scandiscono le nostre giornate. Cosa accadrebbe, per esempio, se da un giorno con l’altro Google interrompesse i suoi servizi e noi perdessimo tutte le nostre mail o i nostri documenti? Oppure, come cambia la vita di una persona che ha sempre utilizzato un computer Apple ma dopo l’ennesimo aggiornamento non può più utilizzarlo come faceva un tempo?

La seconda riguarda il ruolo della tecnologia come supporto psicologico. Per alcuni anni Akihiko Kondo è stato vittima di bullismo sul lavoro e questo lo aveva portato a chiudersi sempre più in se stesso, avere disordini alimentari e cadere in un profondo stato di depressione. Dopo aver scoperto Hatsune Miku però, qualcosa è cambiato. «Sono rimasto nella mia stanza per 24 ore al giorno» dice Kondo «passavo le mie giornate a guardare i video di Miku, e questo mi faceva stare bene.» Grazie a questo supporto psicologico, Kondo è riuscito ad uscire di nuovo, ritrovare un suo equilibrio e tornare al lavoro.

E quindi la tecnologia è la causa o la cura di alcune delle più attuali patologie? E il mercato della tecnologia può basarsi solo su valori puramente commerciali oppure andrà un domani regolamentato come quello del Food o del Pharma?




 

Corrente #68: Glamping.

La prima volta che ho sentito parlare di “Glamping” è andata più o meno così, un mio amico di ritorno da un lungo week end in Toscana mi dice: «Jacopo, ho provato il Glamping… che fregatura! Mi son fatto rifilare un campeggio al costo di un hotel cinque stelle!»

Confesso di non aver mai provato il Glamping quindi non parlo per esperienza diretta ma il feedback del mio amico non mi ha sorpreso poi così tanto. Comparsa per la prima volta nel Regno Unito nel 2005 e nata dall’unione delle parole “Glamour” e “Camping”, la parola “Glamping” indica un’esperienza di alloggio dove le tradizionali attività di campeggio sono arricchite da servizi o accessori esclusivi in stile resort.

Una soluzione che punta più al come o al cosa facciamo rispetto al dove lo facciamo e che a quanto pare sembra essere sempre più richiesta. Non a caso già diversi anni fa, AirBnb ha arricchito alla sua originale offerta con “AirBnb Experiences”, una piattaforma dove trovare esperienze uniche da vivere più per avere una storia da raccontare agli amici o condividere sui social, piuttosto che per fare un viaggio.

Viviamo in una sorta di “sindrome da menù turistico” in cui messi di fronte alle tante possibilità che abbiamo oggi non riusciamo ad orientarci e così scegliamo senza di fatto fare una scelta precisa. Proviamo un po’ tutto ma non godiamo veramente di nulla.

Indipendentemente dalla sua reale validità, il Glamping intercetta dunque diversi trend tipici della nostra epoca, primo fra tutti l’illusione di poter aver tutto senza compromessi. Un po’ come la Coca Zero, il caffè decaffeinato, la birra analcolica, le sigarette elettroniche, la carne sintetica o i dolci senza zuccheri. Tutti prodotti pensati per farci avere tutto quello che vogliamo, senza il peso delle loro conseguenze.

Viviamo così in una sorta di “sindrome da menù turistico” in cui messi di fronte alle tante possibilità che abbiamo oggi non riusciamo ad orientarci e così scegliamo senza di fatto fare una scelta precisa. Proviamo un po’ tutto ma non godiamo veramente di nulla. Come con il Glamping, vogliamo la natura selvaggia, ma non siamo disposti a rinunciare al confort dell’hotel. Dimenticandoci però che la bellezza della natura selvaggia passa inevitabilmente anche per la fatica di vivere in mezzo alla natura selvaggia.




 

Corrente #91: Carnismo.

Una delle cose che mi ha sempre lasciato perplesso dell’universo Walt Disney è che Pippo, un cane antropomorfo, possegga a sua volta un cane, Pluto, che invece è “solo” un cane. Come se per la Disney esistessero due tipologie di animali. Quelli più “umani” (come Topolino, Paperino e, appunto, Pippo) e quelli invece meno “umani” come Pluto.

Sebbene questa distinzione tra animali-umani e animali-animali possa sembrare bizzarra oggi stiamo vivendo un fenomeno simile e, per certi aspetti, paradossale.

Da una parte stiamo assistendo all’esplosione del settore Pet Food e Pet Care guidato da un numero sempre maggiore di famiglie che hanno animali come cani, gatti o conigli. In Italia per esempio il rapporto tra popolazione residente e animali è di 1 a 1 con una stima di 60,3 milioni di animali. Nascono così nuove professioni come il “Barkitect“, ovvero l’esperto di Interior Design, o il Party Planner che organizza lussuose feste per cani e il massaggiatore per cani. Oppure prodotti come pillole per allungare la vita dei nostri animali o la DogTv, una televisione pensate apposta per i cani. O ancora servizi di Food Delivery con menu gourmet per cani come Dog’s Bistrot o gelaterie per cani come Salty Paw’s o addirittura App d’incontri per animali come Pedigreender ideate per dare ai nostri amici a quattro zampe servizi quasi al pari di quelli pensato per gli esseri umani.

Da un’altra parte, i vegetariani sono sempre meno e continuano a crescere gli allevamenti intensivi dove ogni giorno vengono barbaramente macellati centinaia di migliaia di animali. Il consumo di carne è in continuo aumento. Così come continuano ad esistere riti culinari come il piatto coreano Sannakji dove i polpi vengono tagliati e mangiati ancora vivi.

Nel libro “Why We Love Dogs, Eat Pigs and Wear Cows” (Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche), Melanie Joy conia il termine Carnismo proprio per indicare il paradosso culturale per cui macelliamo e mangiamo alcuni animali considerandoli al pari di un oggetto, mentre amiamo e rispettiamo altri animali considerandoli al pari di una persona.

Secondo l’autrice «il Carnismo è causa di grandi sofferenze per gli animali e di ingiustizie globali, e ci spinge ad agire contro i nostri interessi e quelli degli altri senza renderci pienamente conto di ciò che stiamo facendo. Diventare consapevoli di cosa sia il Carnismo e di come funzioni è fondamentale per l’empowerment personale e la trasformazione sociale, in quanto ci permette di fare le nostre scelte alimentari in modo più libero, perché senza consapevolezza non c’è libera scelta.»

Ed effettivamente è condivisibile concordare con Melanie Joy nel pensare che il problema alla base del Carnismo sia proprio una questione di consapevolezza. Amiamo alcuni animali perché fanno parte della nostra vita e quindi abbiamo la consapevolezza di cosa provino. Animali che invece non abbiamo mai visto e di cui ignoriamo la provenienza non ci suscitano alcun sentimento. Li consumiamo al pari di un prodotto senza farci tante domande. 

Io non sono vegetariano e non sono neanche un animalista. Penso che gli animali siano animali. Non sono persone, ma non sono neanche oggetti. Quello che trovo incoerente infatti, se non addirittura razzista, è considerare taluni animali al pari di persone e altri al pari di oggetti privi di sentimenti.

L’animale però rimane lo stesso. Quando viene macellato, il cane o il coniglio che ci teniamo in casa e con cui siamo cresciuti soffre tanto quanto un qualsiasi altro cane o coniglio. Quello che cambia è solo il nostro punto di vista. La percezione che noi abbiamo dell’animale.

Io non sono vegetariano e non sono neanche un animalista. Penso che gli animali siano animali. Non sono persone, ma non sono neanche oggetti. Quello che trovo incoerente infatti, se non addirittura razzista, è considerare taluni animali al pari di persone e altri al pari di oggetti privi di sentimenti.

Indipendentemente quindi dal suo ambito prettamente relativo alla sfera animale, il fenomeno del Carnismo offre uno spunto di riflessione più ampio sull’importanza di avere una maggiore consapevolezza dell’impatto delle nostre abitudini sul mondo. Sebbene oggi siamo, forse, consumatori un po’ più accorti di quello che eravamo un tempo, c’è ancora una distanza molto significativa tra quello che consumiamo e la consapevolezza di come quello che consumiamo sia stato prodotto.

Noi non ce ne rendiamo conto. Viviamo in un sistema costruito apposta per non farci pensare a quello che c’è dietro (e davanti) ai prodotti che acquistiamo. Ma spesso dietro c’è una storia di sfruttamento del lavoro e distruzione del pianeta e davanti una storia di inquinamento e consumismo. Pensiamo a tutte le sofferenze, lo sfruttamento e le vite che stanno dietro ai diamanti che regaliamo, ai pezzi dei nostri smartphone o al tabacco che fumiamo.

Oppure pensiamo proprio alla produzione in serie del cibo, che ha ormai assunto dinamiche da prodotto di massa. Si è passati da una logica in cui l’uomo era produttore diretto del cibo che consumava e quindi aveva piena consapevolezza della sua origine (come nel celebre dipinto “I mangiatori di patate” di Van Gogh del 1885, dove i contadini mangiano patate con le mani ancora sporche della stessa terra dove quelle patate sono cresciute), fino a un estremo in cui l’uomo è divenuto consumatore inconsapevole di dove e come il cibo che consuma viene prodotto, aumentando esponenzialmente la distanza tra oggetto consumato (cibo animale o vegetale che sia) e soggetto consumatore (noi esseri umani).